Le 16 ore drammatiche nel campus universitario di Garissa, nel Kenya del nord, a 150 chilometri dal confine somalo, sono iniziate giovedì scorso subito dopo l’alba, ora della salat al-fajr, la preghiera islamica del mattino. Almeno cinque uomini con volto coperto e pesantemente armati, affiliati al gruppo jihadista somalo al-Shabaab, hanno aperto il fuoco contro i custodi dei dormitori, riuscendo a infiltrarsi in stanze, aule, biblioteche e laboratori dell’università. Charles, studente di scienze informatiche, racconta che dalla sua stanza al piano terra, ha sentito colpi di arma da fuoco e grida. Nel suo dormitorio gli studenti sono stati divisi in gruppi, in base alla loro religione. I non-musulmani sono stati giustiziati e i musulmani sono stati liberati.

Il bilancio delle vittime, ancora oggi provvisorio, parla di 153 morti, tra cui 148 studenti e cinque addetti alla sicurezza, e 104 feriti, tra cui 19 in condizioni critiche. Già nella notte di giovedì il National Disaster Operation Center kenyano, parlava di 587 studenti evacuati dal campus, su 850 iscritti. Almeno in cento mancano all’appello, ma potrebbero essere anche di più i giovani ancora nelle mani dei miliziani. Le forze armate di Nairobi continuano a pattugliare l’università. Jacob Kaimenyi, segretario di Gabinetto per l’Educazione, ha annunciato che la struttura rimarrà chiusa. A Garissa, Wajir, Mandera e nella contea di Tana River, rimarrà il coprifuoco dalle ore 18.30 alle ore 6.30, per due settimane.

Il ministro dell’Interno Joseph Nkaissery, ha comunicato l’uccisione di quattro presunti aggressori e dell’arresto di altri cinque. Uno dei miliziani che hanno preso parte all’assalto sarebbe Abdirahim Mohammed Abdullahi, kenyano, figlio del governatore della contea di Mandera. Mente dell’attacco viene invece considerato Mohammed Mohamud Kuno, fino al 2000 direttore del Madrasa Najah Institute a Garissa, una scuola coranica, ben noto come leader di al-Shabaab nella regione autonoma di Jubaland, a sud della Somalia, che condivide più di 700 chilometri di confine con il Kenya. Kuno ha rivendicato anche l’attacco a Mandera, piccolo centro al confine tra Kenya e Somalia, dove lo scorso novembre vennero uccisi 28 civili non musulmani, a bordo di un autobus diretto a Nairobi. Ed è collegato all’attacco del settembre 2013 nel centro commerciale Westgate a Nairobi, quando 67 persone persero la vita in quattro giorni di assedio. Latitante dallo scorso dicembre, le forze dell’ordine kenyane hanno messo sulla sua testa una taglia di 220 mila dollari. E al-Shabaab minaccia nuovi attacchi finché il Kenya manterrà le truppe in Somalia.

La risposta del Kenya Defence Forces è arrivata immediata domenica, con bombardamenti a tappeto nei campi di Gondodowe e Ismail, entrambi nella regione di Gedo, al confine tra Kenya, Etiopia e Somalia, fertile rete dei miliziani di Kuno.
I miliziani di Kuno hanno intenzionalmente scelto la Garissa University College, perché identificata come facile obiettivo, pienamente consapevoli della corruzione paralizzante e della carente gestione della sicurezza nella scuola. «Rumori di granate, di colpi di arma da fuoco e di esplosioni ci hanno svegliate», raccontano Jene e Nadja, che dividevano la stessa stanza del dormitorio femminile da 360 posti. «Continuavano a chiedere se tutti noi eravamo cristiani o musulmani. Ci chiedevano di pronunciare versi del Corano in arabo. Chi non l’ha fatto è stato ucciso».

Jene ha volato con i piccoli aerei dei flying doctors al Kenyatta National Hospital di Nairobi, dopo essere stata colpita da una scheggia all’addome. È stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico. Era entrata solo da pochi mesi al Garissa University College. Ci racconta che i colpi di kalashnikov dei guerriglieri sono diventati più fitti quando l’esercito kenyano ha raggiunto e circondato il college, ben sette ore dopo l’irruzione.

Lunghe file di uomini e donne di diverse nazionalità, etnie e religioni, si sono riversate nel cortile del piccolo ospedale di Garissa, in attesa di donare il proprio sangue alle vittime dell’attacco jihadista. Il personale della Croce Rossa locale ha allestito una sorta di centro di primo soccorso nel cortile del Garissa Provincial General Hospital, per lo smistamento dei pazienti. Anche un’equipe di Medici Senza Frontiere ha supportato l’ospedale nella fase di emergenza. I ragazzi sopravvissuti insieme alle famiglie ora sono al Nairobi Nyayo National Stadium, adibito a centro di gestione dei disastri. Grazie al lavoro dello staff della St Johns Ambulance e del Kenya Blood Transfusion and Storage Services, proprio dallo stadio è partita una staffetta di solidarietà, della durata di tre giorni, per continuare la donazione di sangue alle vittime dell’attacco che ancora lottano per la vita, nelle sale operatorie dell’ospedale di Nairobi.

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Tra la gente in fila anche la madre di Faith, che ha perso la vita nell’attentato. «Faith non c’è più – dice -, ho visto e riconosciuto il suo corpo. Ma sua sorella è ancora in terapia intensiva e ha bisogno di me ora. Non posso permettermi di piangere».
Intanto nelle strade della capitale si sono dispiegati cortei di protesta e di solidarietà. Ieri mattina presidio di fronte alla succursale della Moi University, a Nairobi. Decine di cartelli a ricordare i nomi e le foto degli studenti uccisi. «I ragazzi di Garissa possono studiare con noi», scandivano a gran voce i giovani universitari, dopo la nota diramata dal Ministero dell’Istruzione di tenere ancora chiuso il College e di trasferire gli studenti nella sede principale della Moi University a Eldoret, nel Kenya dell’ovest.

Aleela è la sorella maggiore di Nadira e quest’ultima è in sala d’attesa al Kenyatta National Hospital di Nairobi da almeno 29 ore. Aspetta che Aleela esca dalla terapia intensiva. «È stata colpita alla testa – ci dice – Non so come sta, i dottori non mi sanno dire ancora nulla. Io voglio solo sapere se si sveglierà». Ci racconta che Aleela vuole diventare una maestra per insegnare nelle scuole elementari di Marsabit, il villaggio dei loro genitori. Aveva ottenuto dal suo college una borsa di studio, per continuare ad andare a scuola. Si era trasferita poi a Garissa, a 360 chilometri da casa sua. «Non la vedevo da mesi, ma sapevo che era contenta».