Dopo la presentazione al Torino Film festival, e a quello di Rotterdam passa sugli schermi della quinta edizione di Registi fuori Dagli Schermi, iniziata il 25 febbraio col tornado psico sensoriale di 11 Minut di Jerzy Skolimowski, I Racconti Dell’Orso, degli emergentissimi Emanuele Sestieri e Olmo Amato. Elegia psichedelica del digitale, narra, con fare da cinema degli albori, di come un omino rosso e un simpatico monaco alieno abbiano deciso di fermare il loro sempiterno inseguirsi in un mondo di sogno, per prendersi cura di un orsacchiotto di peluche ferito, e spiazza tutti per l’inconsueta visionarietà tipicamente 2.0. Eccovi un breve scambio a riguardo.
Tra gli aspetti «anticlassici» del vostro film c’è sicuramente quello di una sceneggiatura flessibile, aperta al divenire degli eventi in cui è il montaggio, non il testo scritto, la forma scritturale primaria…
(S.) In realtà molte caratteristiche di linguaggio di I Racconti dell’Orso sono nate da nostre esigenze tecniche, mancanze pratiche. Siamo partiti per la Finlandia in due con l’idea di girare un semplice cortometraggio va da sé che essendo due solamente, bisognava trovare soluzioni a questioni altrimenti scontate, chi doveva stare in campo e chi alla macchina, o come gestire le scene in cui siamo tutti e due presenti in scena. Era chiaro che dovevamo ricorrere a un linguaggio il più essenziale, il più ascetico possibile, che riducesse il numero delle variabili in campo. Il fatto di girare con macchine digitali, poi, ci ha aiutati molto, nel senso che ci permetteva di girare ore e ore di materiale, senza stoppare, esigenza questa fondamentale, visto che non avevamo un ciak. Allo stesso tempo durante i quaranta giorni passati girando per la Finlandia, via via incontravamo luoghi, persone e situazioni del tutto inaspettate e il film improvvisamente diventava qualcos’altro, prendeva una strada sua del tutto imprevista, liberandosi un po alla volta dai confini tracciati nel soggettino iniziale.
(A.) Una scelta consapevole di apertura all’imprevisto che ci ha permesso di arricchire narrativamente il film, per esempio la bambina che sogna tutto il film non era prevista, ma un giorno, per caso, il padre ci ha offerto uno «strappo» in macchina e così l’abbiamo filmata senza sapere se poi ci sarebbe servita. La scrittura definitiva, è avvenuta, come dicevamo, al montaggio, è lì che abbiamo scelto di usare questa situazione come cornice narrativa di tutto il film.
Montaggio-scrittura, appunto
(S.) Avevamo un magma di ore e ore di girato digitale, rispetto al quale era difficile pensare una forma di scrittura preventiva, che desse a priori una organizzazione. Abbiamo capito che solo con il montaggio potevamo farlo «parlare». Mettici pure che ci sembrava un gesto estremamente cinematografico il voler attribuire al montaggio, uno dei fondamenti del fare cinema, il compito di dare una logica, una struttura, al film.
Un’Immagine post-moderna, che anziché essere icona di una realtà concreta ed extrafilmica, mette in scena, in una sorta di circolarità metariflessiva, altri universi della rappresentazione audiovisiva, come il cartoon, o il videogioco vintage…
(S.) Eravamo in campeggio che stavamo riguardando le prime immagini di girato, in cui l’omino rosso attraversa i primi scenari metropolitani deserti ed entrambi ci siamo veramente sorpresi nel constatare che, per via della luce particolare e dei colori sembravano immagini di animazione. Da quel momento abbiamo deciso di andare in quella direzione, come se il riferimento, il mondo in cui i due personaggi si muovevano fosse, ancor più che la fiaba, il mondo con cui siamo cresciuti entrambi, quello del nostro immaginario infantile che spazia da Willy coyote ai Teletubbies, tutto il film poi è andato in quella direzione, grazie alla possibilità tutta digitale di controllare in tempo reale le immagini e cambiare rotta, all’occorrenza, per andare nella direzione scelta.
(A) Per esempio la tuta che indosso durante le riprese non è di quel rosso fluorescente e non ha quella piattezza bidimensionale che ha nel film, ma in post-produzione, abbiamo notato che, saturandolo, quel rosso attenuava i contrasti tra i volumi del corpo con un curioso effetto di figura piatta, quindi abbiamo continuato a lavorare nella direzione di renderlo una figura più astratta che reale. Di fronte all’esigenza di creare un mondo a parte, un Altrove, è sembrato giusto a entrambi che la sua caratterizzazione come quella dei personaggi, fosse innanzitutto di di tipo cromatico, cioè basata su qualità interne all’immagine stessa e che dunque tutto il lavoro di denotazione e connotazione avrebbe dovuto passare da lì, dall’immagine.
C’è un gran ritornare di ‘dissolvenze incrociate’ e ‘dissolvenze tenute’, spesso lunghissime, una modalità di collegamento delle scene che, secondo la più classica delle grammatiche del film, segnala il contesto onirico.
(S.) In realtà l’idea del sogno è arrivata a posteriori, a un paio di mesi dalla fine del montaggio, ma nella prima versione, come nei nostri lavori passati, erano comunque presenti molte dissolvenze perché ci affascina la possibilità che un’immagine rimanga incagliata in un’altra, che abbia una certa persistenza, poi, ovviamente, trovata la cornice del sogno la dissolvenza era perfetta per suggerire l’idea di questo lentissimo e progressivo scivolare la dimensione onirica. La natura, gli immensi scenari adamantini della Finlandia, le sue acque e le nebbie diventano il personaggio nascosto nel film…
(A.) Sul piano narrativo ci interessava che la natura fosse un personaggio, questo sì, il cui ruolo è però quello di richiamare gli altri personaggi, come se questi fossero un po’ guidati da questa natura, è così per la nebbia e per tutti gli altri elementi naturali che incontravamo. La stessa natura che con le sue variazioni climatiche o di luce guidava anche le modalità e i tempi di produzione del film. Dovevamo adattarci creativamente a condizioni imponderabili, come quando la nebbia si diradava improvvisamente e ci toccava alitare sull’obiettivo per simulare un effetto nebbia improvvisato. Una dimensione ludica, la continua avventura del trasformare tutti gli ostacoli che ci si presentavano, soprattutto di ordine produttivo, visto che abbiamo lavorato con budget praticamente zero, in ulteriori risorse. L’idea del costo zero ci ha interessati sin dalle fasi del progetto iniziale perché ti garantisce una libertà espressiva quasi totale, lascia spazio alle dimensioni, fondamentali per noi, del gioco e della sperimentazione. Nel traslare questo nostro divertimento del fare cinema nel divertimento effettivo di questi due personaggi che hanno a disposizione un mondo intero per giocare a rimpiattino, abbiamo raccontato un po’ il nostro viaggio, il suo spirito.
(S.) E l’inseguimento, alla fine nulla ha di minaccioso, si risolve in un gioco che si ripete autisticamente, sino a quando capiscono che la loro esistenza trova un senso solo se si prendono cura di qualcun altro, l’orsacchiotto, e dunque termina per loro la fase del giocare senza scopo e inizia quella della responsabilità verso il prossimo. Ci interessava l’idea che anche in una situazione da fine del mondo ci fosse l’esigenza forte di ricostruire dei legami sociali, una sorta di nucleo familiare per quanto bizzarro. L’orsacchiotto, da sempre miglior amico dei piccoli, poi rimanda alla bambina, e a tutto un immaginario infantile, che determina molte scelte anche di livello stilistico. Per esempio il linguaggio pre-verbale dei due, che è simile a quello degli infanti, precedente alla parola e alla sua razionalità ordinante, come se tutta la fase del pensiero razionale avesse ancora da arrivare.
Tra cinema tradizionale e digitale, mi autorizzate a definire il vostro film un film muto dell’era digitale?
(S.) In alcune scene i riferimenti al muto sono addirittura spudorati, per esempio quella dell’inseguimento tra le staccionate, ha volutamente una musica da Slapstick, da commedia degli inseguimenti e delle torte in faccia, e i personaggi si muovono in maniera piuttosto stilizzata, perché cercavamo di simulare dal vivo quella strana velocità con cui si muovono i personaggi del muto. Girando ci siamo divertiti moltissimo in questo senso. In più c’è da dire che abbiamo abbandonato quasi subito, visti i risultati, il suono di presa diretta. Quindi, di fatto, ci siamo ritrovati a dirigere e interpretare un film muto in tutti i sensi, perché il sonoro non lo registravamo proprio. Abbiamo dovuto ricostruire ogni singolo rumore e suono in post-produzione e questo ci ha permesso di lavorare anche sull’audio nella direzione di un continuo riferimento al cinema e alle sue pratiche in generale, e al cinema delle origini in particolare….chiedevamo ai sound designer della New Digital, che hanno curato interamente questo aspetto del film, di non far corrispondere esattamente suoni e rumori alle azioni che si ritrovano nell’immagine ma che li trasfigurassero in qualche modo, per andare in quella direzione cartoonesca e da slapstick che volevamo. Ecco che allora il rumore delle zanzare può essere parodizzato soffiando nel nylon di un pacchetto di sigarette o il fuoco stropicciando della carta. Un suono che, come dicevamo prima, non ha alcun riferimento con la realtà ma che rimanda ad altro cinema. I rumoristi ci guardavano come due alieni, perché gli chiedevamo continuamente i rumori più improbabili e suoni da cartoon. Nella scena in cui giocano a lanciare sassi nell’acqua il fischio del lancio è il tipico suono che fa la canna da pesca nei cartoni animati del tipo di Willy coyote e come questo ci sono tutta una serie di altri rumori palesemente calcati, caricaturali, a cui tenevamo molto, perché immaginavamo che il nostro universo sonoro dovesse essere veramente quello di Wile Coyote.