Che cosa è l’archeologia? Che idea ne hanno i cittadini europei?
A queste domande prova a rispondere Archaeology&Me. Pensare l’archeologia nell’Europa contemporanea, a cura di Rita Paris (Museo Nazionale Romano) e Maria Pia Guermandi (Istituto per i Beni artistici Culturali e naturali dell’Emilia Romagna). La mostra, a Palazzo Massimo a Roma fino al prossimo aprile, espone una selezione di disegni, fotografie, dipinti e composizioni grafiche con i quali giovani (e anche bambini) di quattordici paesi hanno partecipato a un concorso bandito nell’ambito del progetto NEARCH (New Scenarios for a Community-Involved Archaeology), finanziato dalla Commissione Europea.
È una piacevole sorpresa scoprire, accanto alle prevedibili variazioni sul tema della ricerca come avventura (Indiana Jones è pur sempre vivo e lotta insieme a noi), un’ampia serie di eleborati che con arguzia e fantasia rapportano l’archeologia al vissuto quotidiano, facendone non solo una fonte di ispirazione artistica ma anche una chiave per costruire un corretto rapporto tra la natura e l’opera dell’uomo nel corso del tempo.
Gli Europei di oggi mostrano di non ignorare che l’archeologia è una scienza con regole rigorose e richiede saperi specialistici, ma hanno anche chiara coscienza del fatto che essa, pur avendo per oggetto il passato, è uno strumento efficace per comprendere il presente e progettare il futuro. Nel loro approccio, però, prevale un atteggiamento giocoso, divertito e divertente. La riflessività non è disgiunta dall’ironia, e questo mix rende la visita un’esperienza assai piacevole. Ma questa mostra non è solo da vedere. Chi ha voglia, può interagire attraverso i social networks: un twitter wall all’interno del percorso rende immediatamente visibili i commenti dei visitatori.
Alla sezione relativa ai risultati del concorso se ne aggiunge una seconda, che espone il punto di vista degli archeologi e amplia il ventaglio dei temi, includendone alcuni particolarmente ‘caldi’: i fenomeni migratòri, costanti nella storia europea (Roma, dopotutto, fu fondata dal discendente di un profugo – Enea – arrivato via-mare dalla Turchia), la composizione multietnica delle società antiche (un busto di Settimio Severo sta a ricordarci che sul trono dei Cesari salirono anche degli africani), l’uso e abuso del passato attraverso l’appropriazione o la distruzione dei monumenti archeologici (le foto della Terza Roma mussolinana stanno accanto a quelle della celebrazione dei 2500 anni dell’impero persiano da parte dell’ultimo scià e delle mutilazioni dei jihadisti alle rovine di Palmira), la piaga del commercio illegale di reperti, l’archeologia postcoloniale come ricerca di identità culturale.
Un discorso particolarmente interessante è poi quello dell’arteologia, che applica allo scavo la metafora della scultura: come lo scultore estrae la forma dal materiale grezzo che la conteneva, così l’archeologo, rimuovendo gli strati accumulatisi sui resti antichi, dà un senso a qualcosa che, pur essendo già lì, non ne aveva ancora uno, in termini culturali.
Ne è un’affascinante esemplificazione il video francese Colazione sotto l’erba. Vi si mostra lo scavo dell’omonima performance di Daniel Spoerri, che nel 1983 seppellì in una trincea di sessanta metri nel parco di Jouy-en Josas, a sud di Parigi, i resti del picnic di 120 artisti che lui stesso vi aveva organizzato. Dopo ventisette anni un’équipe di archeologi professionisti ha riportato tutto alla luce con scrupoloso procedimento stratigrafico.
Decisamente toccante, infine, l’esposizione di un ritrovamento fatto nel corso degli importanti scavi sull’Appia antica diretti da Rita Paris: due tubi di piombo sigillati, che furono seppelliti – come attesta la data incisa su di essi – nel 1929. Contengono le lettere d’amore che due amanti infelici si erano scambiate nel corso dei precedenti quattro anni, e che vollero deporre nel grembo della terra ‘a futura memoria’, fiduciosi forse che un giorno – come in effetti è avvenuto – un archeologo le avrebbe ritrovate. Una prova, se ce ne fosse bisogno, che l’archeologia non riesuma solo oggetti materiali ma storie di vita vissuta, illuminando in modo imparziale vicende grandi e piccole, remote o anche solo di ieri.
Tutto questo, e altro ancora, testimonia la mostra. Ed è paradossale che le giovani generazioni e le istituzioni comunitarie unanimemente riconoscano l’importanza di questa disciplina, mentre i governanti del nostro Paese stanno facendo di tutto per mortificarla, sia come professione che come prospettiva cognitiva, con sconsiderate riforme delle soprintendenze e dell’università.