E mentre la violenza della polizia contro i giovani afro-americani ha raggiunto livelli da guerra civile, Rick Famuyiwa realizza un film in contro tendenza. Dope, pur ritornando dalle parti di Boyz n the Hood, sceglie un approccio diverso dal realismo gangsta dell’esordio di John Singleton, codificato poi da Juice di Ernest Dickerson e da Nella giungla di cemento dei fratelli Hughes. Il modello di Dope, infatti, sembra essere House Party – Festa in casa di Reginald Hudlin, piccolo classico degli anni Novanta. Malcolm (Shameik Moore), assieme ai suoi amici Diggy (la sorprendente Kiersey Clemons) e Bug (Keith Stanfield), sono i secchioni della scuola. Suonano in un gruppo punk che deve qualcosa sia a Raphael Saadiq che ai Tv on the Radio, adorano l’hip-hop degli anni Novanta e pur abitando a Inglewood, uno dei quartieri più malfamati di Los Angeles, stanno lontani dalle strade lavorando duro per andare al College. Magari Harward. Famuyiwa, piuttosto che puntare l’obiettivo sulla dissoluzione del tessuto sociale, preferisce soffermarsi su ciò che resiste e sulle difficoltà del tenere duro.

Ovviamente, puoi stare lontano dai guai, ma ciò non significa necessariamente che i guai staranno lontano da te. Realizzato con uno straordinario fiuto ambientale, omaggiando School Daze di Spike Lee, Dope, dal titolo volutamente ambiguo che gioca sulle diverse sfumature della parola che vanno da «droga» a «fico», è al tempo stesso una reinvenzione e un omaggio alla new wave del cinema african-american capitanata da Spike Lee e compagni. In questo senso si potrebbe affermare che Dope sta all’r’n’b degli anni Dieci, come il cinema degli Hughes e dei Singleton all’hip-hop della metà degli anni Ottanta e dei Novanta. Prodotto dalla I Am Other di Pharrell Williams, in collaborazione con Sean Combs, Dope, pur conservando la propria attenzione sulla realtà del «vicinato», opta per un approccio da commedia adolescenziale che il regista gestisce e controlla con una grande attenzione.

Inevitabile non pensare ai fatti di Baltimora mentre scorrono le immagini di Dope. Difficile scuotersi di dosso l’amarezza rassegnata delle parole di Famuyiwa che nell’incontro con il pubblico ha dichiarato che la violenza della polizia è un problema che andrà avanti ancora per molto tempo. La disperazione e la mancanza di speranza, infatti, sono al centro delle preoccupazioni di Dope. Malcolm, però, è da considerare come un modello alternativo rispetto a quelli veicolati dalla mitologia hip-hop e blaxploitation (della quale A$ap Rocky è una magnifica incarnazione). Dope, infatti, mette in scena l’evoluzione di un secchione a imprenditore di se stesso. E se questo passaggio è in linea con l’ideologia del fai-da-te a stelle e strisce, dall’altro punta decisamente, e con grande schiettezza, sull’orgoglio di una generazione ancora soffocata da pregiudizi e vincoli sociali non scritti (ma vissuti sulla propria pelle) che ancora non riesce ad accedere all’istruzione superiore e universitaria alla pari dei propri coetanei bianchi.

Istruttive, in questo senso le parole finali del saggio che Malcolm sottopone alla commissione esaminatrice di Harward: «Mi chiedereste perché voglio entrare a Harward se fossi bianco?». In questo senso non si può comprendere Dope se non si ha ben chiara in testa l’evoluzione da star dell’hip-hop a imprenditori a tutto tondo di personaggi come Jay Z, Sean Combs, Kanye West, e altri tra i quali appunto Pharrell. Come direbbe Sean Combs, «racconta la strada, non lavorare sulla strada». Non è casuale se Malcolm e i suoi amici siano adolescenti dagli interessi diversificati, bravissimi in matematica, nerd musicali, dal fiuto commerciale vivissimo e dediti a un sacco di «white shit», ossia la roba che si suppone non interessi ai «neri», uno dei principali strumenti attraverso il quale si pratica l’esclusione sociale: appioppando un colore agli interessi, anche quelli ricreativi. Territorializzando saperi e interessi. Ed è proprio la riappropriazione di un territorio e un mondo che mette in scena Dope. E ovviamente lo si fa usando le risorse che la strada offre. Dagli spacciatori agli amici bianchi che non capiscono perché a loro non è permesso utilizzare la parola «nigger».