C’è una valle, nel Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, dove vive uno dei branchi di lupi più numerosi dell’Appennino: la Val Chiarino. Tutt’attorno, in quella che per estensione è la terza area protetta a livello nazionale d’Italia e tra i bacini di maggiore biodiversità d’Europa, scorazzano protetti camosci e cervi, e vi sono state censite 2364 specie vegetali. Un patrimonio dell’umanità.

Eppure a L’Aquila, il capoluogo di regione che si estende a poca distanza dal Corno Grande, vetta che sfiora i tremila, a breve potrebbe essere indetto un referendum cittadino sulla proposta di ri-perimetrazione e di attenuamento dei vincoli imposti da Bruxelles sui Siti di Interesse Comunitario (Sic) e sulle Zone di Protezione Speciale (Zps) che gravano sull’area dei comprensori sciistici del massiccio. Allo scopo di poter costruire nuovi impianti di risalita e seggiovie proprio nel cuore del Parco, alcuni dei quali salirebbero perfino a quote molto basse: 1400 metri.

Si tratta forse della più grande opera che sia mai stata progettata sulle montagne d’Abruzzo, dal costo complessivo di 40 milioni di euro. Almeno stando a quanto riportato dal sindaco Pd Massimo Cialente – lo stesso che all’indomani del terremoto chiamò giustamente tutto il Paese e anche oltre a contribuire alla ricostruzione della città d’arte, “bene comune” globalizzato – che è in prima fila sul fronte dei “costruttori”, insieme a una buona parte degli aquilani convinti che va bene rispettare la natura ma nei limiti dello sviluppo del turismo e dello sport in quota, risorsa sulla quale si intende ora puntare. Cialente vorrebbe anche privatizzare la gestione degli impianti e delle strutture alberghiere, sia quelli futuri sia quelli già esistenti e infruttiferi (aperti al massimo 40 giorni l’anno a causa della scarsità delle nevi, del forte vento che caratterizza alcune zone, e di scelte a dir poco discutibili come permettere alle auto il transito delle strade che salgono fino a quota 2000, come succede a Campo imperatore). Inutili le proteste degli ambientalisti e di Rifondazione comunista, che pure si ferma alle minacce di uscire dalla maggioranza di centrosinistra che appoggia Cialente.

Le contraddizioni di questa storia sono infinite. «Noi andiamo avanti per la strada del referendum, che non è per uscire dal Parco ma per rimettere al centro del sistema le popolazioni, prese in giro da 20 anni, sempre più forti dell’appoggio di tutti i montanari, degli amanti dello sport e della natura, degli agricoltori e degli allevatori, degli operatori turistici e della città. Dietro di noi non c’è la politica, ma solo un territorio», ha spiegato un esponente del comitato referendario (lo hanno chiamato addirittura #SaveGranSasso) intervenuto durante il dibattito che per oltre tre ore ha infervorato sul tema l’affollata platea dell’Auditorium di Renzo Piano, nell’ambito del Festival della Montagna de L’Aquila ideato dall’associazione “Gran Sasso anno zero”.

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«Non vorrei dover arrivare al referendum», tuona anche il sindaco dem quando prende la parola dopo aver ascoltato, tra gli altri, un timidissimo rappresentante di Legambiente che non si esprime sul merito ed esperti di turismo montano che spiegano invece il nuovo trend di «località glamour come Courmayeur che puntano sul turismo green imponendosi vincoli come se fossero in un Parco, mentre non lo sono». Parole che sembrano però cadere nel vuoto. Il vicepresidente della Regione Abruzzo, Giovanni Lolli, si dice «preoccupato perché almeno 60 sindaci della provincia hanno espresso forti critiche al Parco e siamo al punto che si potrebbe rompere il rapporto di fiducia tra la comunità aquilana e l’Ente», il cui comitato tecnico scientifico ha bocciato il primo progetto già in via d’approvazione, quello della nuova seggiovia delle Fontari che nel piano del Centro turistico del Gran Sasso (municipalizzata comunale) dovrebbe correre parallela e per un percorso lungo il doppio all’impianto già esistente ma poco funzionante a causa della forte esposizione al vento. Costo totale di 6 milioni di euro. Bocciatura confermata dal ministero dell’Ambiente, dipartimento aree protette.

I “falchi no Sic”, però, sono anche convinti che proprio mentre il comune aspettava l’approvazione del Piano d’Area «per rilanciare il turismo», l’Ente Parco rimaneva immobilizzato nel proprio spoil system e così «a Bruxelles sono riusciti ad irrigidire i vincoli dei Sic a tutto discapito dello sviluppo turistico del Gran Sasso».

Il consigliere comunale Enrico Perilli (Prc), che ha lanciato su avaaz.org una petizione contraria a quella del comitato referendario per chiedere invece di salvare zone Sic e Zps, propone di «puntare sul turismo sostenibile», restaurando e migliorando i vecchi impianti sciistici e investendo invece su tutta una serie di piccole opere meno impattanti e di azioni volte alla costruzione di una fitta rete di servizi e di una comunità montana dalla forte vocazione turistica. «Come hanno fatto a Pescasseroli e in tutto il Parco nazionale d’Abruzzo, dove il turismo di massa green è una realtà economica e lavorativa». Perilli racconta, come fa anche che Ettore Di Cesare, consigliere comunale indipendente eletto dai movimenti aquilani nati dopo il terremoto, una battaglia che va avanti da anni e che «si snoda tra Valutazioni di impatto ambientale non rilasciate, escamotage per superare i rilevamenti anemometrici richiesti, piani d’area e progetti affidati dal comune all’analisi puramente aziendalistica di Invitalia (ex Sviluppo Italia), impossibilità di dialogo, dibattito in consiglio comunale precluso, bandi che non prevedono lo smantellamento degli impianti esistenti e pressioni delle lobby dei costruttori e degli operatori del settore che sperano in forti, quanto improbabili guadagni».

Basti solo pensare, aggiungono i due consiglieri che «a impianti finiti, per andare a parità di bilancio, hanno previsto una media di 15 mila biglietti al giorno durante l’inverno e 10 mila d’estate. Nemmeno fossimo a Madonna di Campiglio». «Siamo di nuovo alla propaganda che prometteva 100 mila viaggiatori l’anno dall’aeroporto de L’Aquila – aggiunge Di Cesare – costato un milione di euro, e dal quale nel 2014 sono transitati solo sette passeggeri, prima che venisse chiuso».

E invece ha fretta il fronte del sì alla riperimetrazione delle zone Sic (il sindacato tace e quando parla sostiene l’ottica del presunto rilancio occupazionale, mentre c’è perfino tra i movimenti giovanili chi farebbe volentieri a meno di vincoli pur di ottenere impianti per gli sport estremi, come il mountain bike downhill). «Abbiamo un Fondo Fas di 2,5 milioni da utilizzare entro quest’anno, non possiamo perdere questa occasione», ha spiegato Giovanni Lolli. Gli altri 3,5 milioni necessari a costruire intanto la prima “grande opera”, la Nuova Fontari, dovrebbero essere invece prelevati da un fondo che varia, nelle previsioni dell’amministrazione comunale, tra i 40 e i 50 milioni. Con la privatizzazione dei servizi montani, infatti, il sindaco si aspetta di ottenere dai privati almeno 12 milioni di euro che si aggiungerebbero a quelli accantonati nelle delibere Cipe per il rilancio del turismo montano e a quel 4% dei finanziamenti statali per la ricostruzione de L’Aquila dedicati al rilancio delle attività produttive post terremoto.

«Se non riusciamo a rimuovere alcuni vincoli il Gran Sasso è finito», drammatizza il sindaco Cialente. In ogni caso, non bisogna essere integralisti dell’ambiente per capire che non spetta alla sola comunità aquilana decidere se rimuovere i vincoli che tutelano un patrimonio dell’umanità.