Viviamo da tempo, e sempre di più, in un regime di ricatto continuo, a cui rischiamo di assuefarci.

Facciamo alcuni esempi.

L’abolizione dell’art. 18 rende non solo più facili i licenziamenti; introduce anche nelle aziende un clima di ricatto permanente analogo a quello del lavoro precario. Gli effetti non vanno misurati solo sul numero dei licenziati quanto su quello di morti, infortuni e malattie professionali di chi non può più sottrarsi alle imposizioni della gerarchia.

L’accordo sui profughi tra Unione europea e Turchia espone al ricatto di Erdogan tutti i governi europei che non possono certo sottrarvisi solo tacendo su misure vergognose in tema di democrazia, persecuzione dei curdi o sostegno all’Isis. Quel ricatto continuerà finché si tratteranno i profughi come una calamità e non come una opportunità per ricostituire, con il loro contributo, un diverso ordine sociale.

Il debito degli Stati dopo il «divorzio» tra Governi e Banche centrali ha messo in mano alla finanza internazionale non solo le politiche pubbliche ma anche vita e scelte dei cittadini. Le vicende della Grecia dimostrano che piegarsi una, due, tre o quattro volte non libera comunque dal ricatto, che resta permanente. Lo sperimentiamo anche noi: i rappresentanti dell’alta finanza che ci hanno imposto gli ultimi governi oggi vengono a dirci come dobbiamo votare al referendum per evitare uno sfracello. Il che rende evidente che gli «sfracelli» non dipendono dalle «leggi oggettive» del mercato ma da decisioni politiche; prese però non dai governi, ma da poteri tutt’altro che occulti che li tengono in pugno con il ricatto.

Se i «trenta anni gloriosi» del dopoguerra si erano svolti nel segno della speranza – decolonizzazione, «miracoli economici» e «magnifiche sorti» del socialismo – gli ultimi trenta sono invece dominati dalla paura: di perdere il posto o di non trovarlo mai; di essere invasi da alieni che ci portano via il poco che abbiamo; di un disastro economico che ci riduca tutti in miseria.

La paura si traduce in un ricatto contro cui sembra non esserci difesa: il suo nome inglese è «TINA», There Is No Alternative. Infatti l’alternativa non c’è: la parabola de L’altra Europa, soffocata dai partiti che avrebbero dovuto farla crescere, dopo i fallimenti di Coalizione sociale, Cambiare si può, Alba, Federazione delle sinistre, lista Arcobaleno etc., fa capire che un’epoca si è chiusa e che occorre guardare altrove.

Un’alternativa in realtà già c’è nella testa o nel sentire di milioni di persone: si chiama reddito garantito per sottrarsi al ricatto della precarietà e trasformare il lavoro in attività scelte liberamente; accoglienza e inclusione di milioni di profughi per riconquistare con loro e le loro comunità di origine una prospettiva di pace, democrazia e risanamento ambientale tanto dei nostri quanto dei loro paesi; recupero di un controllo diretto e decentrato sul denaro che serve a far circolare beni e servizi tra le persone, restituendogli il ruolo di bene comune a fianco della terra, cioè dell’ambiente, e del lavoro, cioè del libero impiego delle facoltà umane.

Ma come arrivarci? Forse la strada da imboccare è sotto i nostri occhi. Tanto evidente da non riuscire a vederla, come la lettera rubata di Poe.

A vivere da sempre sotto ricatto, in forme ben più intense di quelle indicate prima, è «l’altra metà del cielo».

Un ricatto radicale, che mette in forse la vita e l’integrità fisica – in un crescendo evidenziato dai femminicidi – di molte, ma che per tutte può significare la perdita non solo di pochi o tanti piccoli benefici, ma soprattutto una condizione sociale considerata «sicura», a cui si sono dovute bene o male adattare, ma che non lascia certo prefigurare il futuro che le aspetta sottraendosi al ricatto, se non quello che tutte insieme sapranno costruire.

È così a tutte le latitudini: sia nei territori della donna «emancipata» – ma non per questo fuori dal dominio di una cultura patriarcale – sia in paesi e comunità dove sottomissione e possesso delle donne vengono resi evidenti anche con i segni esteriori, come il velo, di una condizione subalterna.

Per l’universo maschile capire questa condizione significa vivere in prima persona la consapevolezza che non ci si può sottrarre ai ricatti a cui siamo sottoposti senza mettere a rischio il nostro status, quale che sia, con i tanti o pochi benefici che comporta e le piccole e crudeli forme di potere, sulle donne o su chi sta peggio di noi, che lo accompagnano.

Ma è una strada irrinunciabile per cambiare la società cambiando anche noi stessi e chi ci vive accanto.

Così possiamo compiere un pezzo di strada insieme lungo il cammino che il movimento delle donne sta cercando di percorrere; e accettare serenamente di ritrovarci spesso nella posizione di loro controparte: non meno gravemente di quanto padroni, finanza e governi lo sono per noi.