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Pubblicato per la prima volta nel 1991 grazie a Laura Lepetit e a La Tartaruga, e vincitore nello stesso anno del Premio Viareggio, Le lettere del mio nome di Grazia Livi risultava fuori commercio da tempo. La recente ristampa per iacobellieditore (pp. 253, euro 14), desiderata dalla stessa Livi poco prima della sua scomparsa a febbraio, è da ritenersi centrale. Inserito nella collana Frammenti di memoria diretta da Anna Maria Crispino, questo «saggio narrante» ha oggi una preziosa postfazione di Liliana Rampello che ne ricostruisce i prodromi così come la temperie politica in cui si andava a collocare.

Ripercorrendo alcune scritture – Simone de Beauvoir, Colette, Virginia Woolf, Gertrude Stein, Gianna Manzini, Ingeborg Bachmann, Anna Frank, Anna Banti, Carla Lonzi, Agnes Bojaxhiu – il libro attua un colloquio genealogico che Livi intraprende e di cui – per quanto la riguarda – si possono vedere i primi bagliori in Da una stanza all’altra (1984).
È la stessa esistenza dell’autrice, scrittrice, saggista e per un breve periodo anche giornalista, a testimoniare la passione e la sapienza brillante verso il pensiero e i saperi delle donne; molti sono stati i suoi racconti e i romanzi, accompagnati da acume letterario e critico. Il congiungersi di misura e ricerca di senso, il metodo del partire da sé e il salpare necessario verso l’altra, Grazia Livi li ha applicati alla critica letteraria; è lei stessa a dichiararlo in una intervista a cura di Maria Antonietta Cruciata: «La conoscenza di sé attraverso l’esperienza nutre la scrittura».

La tangenza con quanto insegnato da Virginia Woolf, percorso dal femminismo e dal pensiero della differenza sessuale, rappresenta il tentativo ultimo di «regnare al centro di sé».

Così dalla lettura di queste vite, che sono quadri obliqui dotati di nitore e altrettanto desiderio di relazione, impariamo uno stile impeccabile e godibile. A sgranarsi in Le lettere del mio nome, non sono solo esperienze ancora incandescenti che andrebbero conosciute, rilette ma soprattutto i sintomi veritieri di una traiettoria scandita da punti precisi. Il primo è relativo a Simone de Beauvoir che inaugura un gesto consapevole nel cuore della propria età forte e al principio di Le Deuxième Sexe che illumina anche il resto: «La ricerca che vedeva levarsi davanti a sé era come una montagna, eppure non la spaventava. L’avrebbe scalata».

Quell’inizio comporta un balzo all’indietro, ecco come entrano in scena l’ombra di Colette, il grembo di Woolf, la genialità di Stein, il diario di Frank e il turbamento di Manzini. Per comporre la sua biblioteca novecentesca, Livi non può sottrarsi agli inserti storici che ne indicano il segno. In tal modo i suoi ritratti pensanti, orientati avanti e indietro dalla dirompenza del femminismo, si spingono agli anni cinquanta con l’incontro decisivo di Anna Banti, attraversando poi gli anni sessanta e settanta. «Chiamala pure la condizione dei solitari,/ in cui lo stupore si compie». Questa la lacerazione di Bachmann, seguita dall’irriducibilità di Lonzi e dalla sfida di Bojaxhiu.

Si arriva al 1990, ai bordi di un’attesa che Livi affida alle parole di Lonzi e ai versi di Julia Lang, perché se l’avvenire del mondo sta nel ripercorrere il cammino con la donna come soggetto, è possibile che chi legge Le lettere del mio nome giunga a una somiglianza con il proprio di nome che è sempre specchio e algebra di una esatta e plurale genealogia. «Adesso la donna seduta al tavolo – la donna che si è sottratta alla disponibilità e alla dispersione – è diventata ciò che cercava di essere. Una scrittrice».