Sono passati molti lustri da quando il filosofo francese Henri Lefebvre mandò alle stampe una riflessione sulla città – Le droit à la ville – critica nei confronti di una visione della metropoli allora dominante. A distanza di decenni, quell’analisi conosce un inedito e a tratti condivisibile revival, grazia a un lavoro di riscoperta che fa leva sui movimenti sociali che puntano alla riappropriazione della metropoli dopo una corrosiva privatizzazione dello spazio pubblico. Molte le differenza tra l’ordine del discorso allora dominante e quello attuale. Nei turbolenti anni Sessanta, infatti, gli urbanisti, affascinati dalle oscure declamazioni di Talcott Parson sulla realtà come un «sistema chiuso», sostenevano che la città era da considerare appunto un sistema autoreferenziale che stabiliva corrosivi rapporti di feedback con l’ambiente circostante al fine di riprodurre una forma del vivere sociale che non ammetteva alternativa al suo divenire.
La prima edizione del saggio di Lefebvre è del 1970, ma fu presto archiviato perché ritenuto un manoscritto incompleto. Da alcuni anni, però, il geografo David Harvey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di suggestioni per analizzare il ruolo della metropoli come un hub delle dinamiche economiche e sociali della contemporaneità. Ha dunque fatto bene la casa editrice ombre corte a ripubblicarlo, corredandolo di una utile prefazione di Anna Casaglia, che inquadra storicamente il saggio del filosofo francese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).

I monumenti del potere

Il funzionalismo rappresentava per Lefebvre un macigno che impediva un’adeguata analisi della città, anche se invitava comunque a prendere ciò che di buono avevano prodotto gli emuli europei di Parson: l’idea cioè che la città è la forma del vivere associato che meglio di altre consente a definire il luogo, meglio i luoghi della produzione della ricchezza. È su questo crinale che Lefebvre usa una famosa frase di Marx laddove scriveva che se il mulino sta al capitalismo mercantile, la macchina al vapore sta al capitalismo industriale. Lefebvre la evoca per sintetizzare la successione delle diverse forme di città che hanno accompagnato lo sviluppo economico. Così la città orientale è connaturata al modo di produzione asiatico, mentre la città antica è funzionale all’economia schiavistica, così come la città medievale ha potuto imporsi solo in presenza del feudalesimo.

Al di là di questa tassonomia, tanto la città orientale che quella medievale erano i luoghi dove re, imperatori, aristocratici e mercanti ostentavano il loro potere e status. La città è immaginata come un’opera che rispecchi una concezione dominante delle relazioni e gerarchie sociali. Ma in quanto «opera», non può rimanere indifferente al divenire storico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinanscimento, diventa così il luogo dove il reale deve manifestare una intima coerenza, un’armonia monumentale che occulti la dimensione sociale, conflittuale che è insita a questa forma del vivere. Una coerenza del reale che non verrà mai raggiunta. I monumenti, le opere architettoniche, i dipinti e disegni rinascimentali sono cioè da considerare la rappresentazione iconografica di una città ideale che non è mai esistita, né che esisterà mai.

Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sarcastica critica di tutte le metafore «naturalistiche» della città (il tessuto urbano, l’habitat urbano), segnalando che la nostalgia per un passato mitico sulla città rappresenta l’incapacità del potere costituito di prospettare una riconciliazione della società urbana con il territorio. E se per la maggioranza della popolazione diviene è al tempo stesso il luogo di un possibile riscatto da una condizione di indigenza e povertà e lo spazio dove i legami sociali primari – la famiglia, la parentela, persino le corporazioni – sono stravolti dallo ormai inarrestabile sviluppo capitalistico, per gli urbanisti è lo spazio dove immaginare una riconciliazione tra l’«ordine prossimo» (le relazioni sociali determinate dal regime della proprietà privata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per questo, secondo Lefebvre, gli urbanisti sono gli ideologi per eccellenza del capitalismo, perché con i loro progetti e interventi fanno sì che la città diventi la «mediazione delle mediazioni», cioè lo spazio dove il potere costituito ha la sua legittimazione.

L’impossibile sintesi

lefebvre

Non sembri però una nota stonata che in questo piccolo, ma denso saggio non compaiano mai riferimenti ai filosofi, sociologi che tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento hanno scritto pagine importantissime sulla città. Georg Simmel è infatti ignorato, così come il Walter Benjamin della «Parigi capitale del XX secolo». E nulla viene detto sulle riflessioni di un modernista convinto come lo statunitense Lewis Munford. Un solo passaggio liquidatorio è dedicato a Le Courbusier, ritenuto un funzionalista che ambisce a diventare l’«uomo di sintesi» di quella che viene ironicamente chiamata la società urbana. L’obiettivo di Lefebvre, infatti, non attiene allo svelamento di come si è formata la metropoli, bensì di registrare un’altra «grande trasformazione» in corso tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento. Il progetto razionalista di riportare ordine nelle metropoli è stato sconfitto da un’alleanza tra urbanisti, amministratori e immobiliaristi tesa a trasformare la città in una «infrastruttura» del governo politico della società e della produzione di merci. La metropoli non è cioè un luogo passivo che riflette ciò che avviene nel mondo della produzione, ma è il contesto dove l’urbano interviene direttamente nella produzione.

 

Il diritto alla città auspicato da Lefebvre è così un antidoto a una totalità dove produzione, consumo e circolazione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma complementari l’uno all’altro nel tempo e nello spazio. Per questo la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desiderio, dei bisogni sociali, della dimensione ludica, trasgressiva inerente i rapporti sociali, ma anche lo spazio dove il potere punta ad esercitare una funzione di controllo a distanza attraverso incentivi alla produzione di segni che rispecchino sì la dimensione multiforme dei rapporti sociali, ma per piegarla alla riproduzione dei rapporti sociali.
Può sembrare un’ironia della storia, ma Lefebvre scrive del conflitto sempre più evidente tra un 99 per cento della popolazione e un 1 per cento che si appropria di tutta la ricchezza prodotta. Lo scrive due anni dopo che nel quartiere latino di Parigi oltre a bruciare le automobili è stato archiviato il sogno razionalista di una città ordinata e facilmente controllabile attraverso le forze preposte all’ordine pubblico. Ma all’orizzonte non c’era nessun Occupy Wall Street, né movimento sociale teso alla riappropriazione dello spazio urbano trasformato in un atelier produttivo. Lefebvre annota solamente che la totalità costituita dalla città ha bisogno di strumenti sofisticati per essere destrutturata. La filosofia e la sociologia, certo, ma anche la linguistica, l’antropologia, la teoria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indicano solo un programma di lavoro che Lefebvre continuò a svolgere, intersecandolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle librerie, come la monumentale critica della vita quotidiana e l’altrettanto ambizioso studio sullo Stato.

Le comunità recintate

harvey

Il diritto alla città potrebbe essere dunque considerato un libro anticipatore di quanto sarebbe accaduto una manciata di anni dopo la sua pubblicazione. Da allora molta cemento è passato sotto i ponti. Le metropoli sono diventate un atelier produttivo che ingloba il territorio all’interno di un processo che vede la compresenza di finanza, produzione e cooperazione sociale, dove la città deve continuare ad essere la mediazione delle mediazioni. C’è chi ha scritto (Mike Davis) di metropoli che vedono quartieri recintati dove la sovranità dello stato si ferma ai cancelli delle gated community, spingendosi a decretare la morte della città, ridotta ormai a una sommatoria di slums dove il 99 per cento della popolazione è sussunta dentro logiche produttive che assegnano all’economia informale di sussistenza una funzione di soft governance della cooperazione sociale. C’è inoltre da registrare la pregnante analisi di Saskia Sassen, che ha fatto delle «città globali» il punto di partenza per un’analisi della globalizzazione liberista che vede nelle metropoli manifestarsi una sovranità sovranazionale che plasma a sua immagine e somiglianza il rapporto tra potere esecutivo, legislativo e giuridico. Segnali di una rappresentazione distopica della città sono venuti dalla narrativa di genere (William Gibson, Bruce Sterling) che guarda alla metropoli come un immane deposito di segni e informazioni piegate a una logica del controllo sociale che non consente nessuna via di fuga.

I nuovi comunardi

Si deve però a David Harvey la ripresa delle tesi di Henri Lefebvre. Anzi si può dire che il filosofo francese ha funzionato come un invisibile filo rosso che tiene insieme l’analisi critica del capitalismo svolta da Harvey sul capitalismo del nuovo millennio, laddove individua nella città il luogo dove l’intreccio ormai inestricabile tra finanza e produzione sono funzionali a un uso capitalistico del territorio. Ciò che per il filosofo francese era una esile tendenza, la trasformazione della metropoli in un atelier produttivo è diventata una realtà acquisita. Per questo sulla città si addensano, tanto nel Sud che nel Nord del pianeta, strategie di governance e progetti di parchi tecnologici, di distretti universitari che favoriscano processi di innovazione sociale e produttiva. La metropoli deve essere cioè uno spazio dove il sapere sans phrase è forza produttiva. E che per questo, devono essere definiti meccanismi di inclusione sociale differenziata in base al lavoro svolto, il colore della pelle e il genere sessuale di appartenenza. La città diviene così il luogo dove agisce una composizione sociale che eccede la figura dell’operaio di fabbrica, come invece sosteneva Lefebvre. E se per il filosofo francese il diritto alla città era una condizione necessaria per non soccombere a una pervasiva e alienante produzione di segni, per il presente è da considerare un vettore per l’azione politica di figure produttive sempre sul confine che separa il lavoro dal non lavoro, tra tempo di lavoro e tempo di vita, sia che si tratti di precari dei fast-food, di knowledge workers, di migranti o «indigeni». Ciò che per Lefebvre era solo un miraggio, il diritto alla città è da considerare l’orizzonte ineludibile di un’attitudine «comunarda» per la riappropriazione della ricchezza prodotta.