Due fattorie malandate tra le montagne delle Cévennes, nel centro della Francia, a sud del Massiccio Centrale. Zone di una bellezza selvaggia, dominate dalla natura e progressivamente spopolate dall’uomo. Gus e Abel, invecchiati anzitempo nel lavoro dei campi resistono apparentemente ciascuno chiuso nel proprio sospetto verso il mondo circostante, in una sorta di risentimento doloroso per gli affetti e il calore mancato. Immaginano che oltre al mutuo soccorso che richiede la vita dura negli inverni di montagna, quella che è nata tra loro sia anche, in qualche modo, una forma di amicizia. Ma un segreto sepolto nella memoria familiare non tarderà a scatenare una spirale di rabbia e di violenza che li condurrà alla fine.

Con Ingrossare le schiere celesti (Neri Pozza, pp. 174, euro 15,00), Franck Bouysse, uno dei più interessanti autori del nuovo polar transalpino, con all’attivo già una mezza dozzina di romanzi di grande successo che hanno fatto parlare la critica di uno stile crudo e poetico insieme, paragonabile per alcuni a quello di Simenon, presenta una tragica poesia noir, segnata da dialoghi aspri e da personaggi altrettanto duri che racconta i misteri e l’orrore di un mondo dimenticato.

La natura sembra occupare un ruolo centrale in questo romanzo, quasi l’asprezza del paesaggio plasmasse il carattere degli individui. È così?

Senza dubbio. Io non solo sono cresciuto da queste parti, ma mi sono anche formato con la letteratura americana dei «grandi spazi» e con scrittori, da William Faulkner a Cormac Mc Carthy, per i quali l’ambiente naturale e il contesto del territorio in cui si muovono i personaggi risulta determinante, forma il loro carattere, il loro modo di vedere le cose, la loro lingua. In questo senso, il romanzo avrebbe forse potuto essere ambientato nei Vosgi o nell’Ardèche, altre zone della Francia dove il paesaggio rurale confina con le montagne e dove la gente è abituata all’isolamento e ad una natura dura, ma magari anche nel Montana, ma era impossibile anche solo immaginarlo per le strade di Parigi.

L’altro aspetto che colpisce riguarda i protagonisti, il cui profilo sembra intagliato in quella stessa roccia che incombe su di loro. Viene in mente il volto di Michel Simon, uno dei più grandi attori del cinema francese, una «maschera» di un mondo popolare scomparso. Voleva raccontare una storia che volge al termine?

Prima di tutto devo dire che questi contadini di montagna che vivono in un clima ostile che li ha abituati a non fidarsi fino in fondo del prossimo è come se li conoscessi da sempre. Accompagnano i miei ricordi d’infanzia, sono nato proprio da queste parti, nella regione del Corrèze, sono cresciuto con loro, ascoltando il loro dialetto e i loro modi di dire, perciò credo di non aver dovuto inventare nulla: ogni gesto di cui parlo ricordo di averlo osservato almeno una volta, ogni frase di averla sentita. È vero, si tratta di un mondo che sta scomparendo, ormai resistono solo i più vecchi che non si rassegnano ad abbandonare i luoghi in cui sono cresciuti. Quelli che restano assomigliano un po’ agli ultimi indiani d’America. Perciò, si, ho anche voluto rendere omaggio alla vita dura di questi uomini e al modo in cui si misurano ogni giorno con una natura ostile ma al tempo stesso splendida.

Da questa immersione nella «Francia profonda» emerge però anche un volto oscuro e spaventoso che sembra nutrirsi del medesimo isolamento e che trasforma la poesia della natura in un noir sconvolgente. È l’altro possibile aspetto di tali luoghi?

In effetti, malgrado la letteratura poliziesca francese ne parli poco, e non siano le zone apparentemente più adatte per condurre un’indagine, è proprio in tali comunità che si possono celare segreti e menzogne, come accade nel romanzo, capaci di produrre esplosioni inaspettate di violenza quando finalmente affiorano in superficie. Proprio la rudezza della vita può rendere le persone spietate e solitudine e isolamento possono contribuire a tenere nascosti più a lungo segreti e verità inconfessabili.

Nel romanzo la grandiosità in qualche modo oppressiva della natura circostante, i lunghi mesi in cui tutto appare calmo in superficie perché coperto sotto uno spesso strato di neve partecipano alla costruzione di una sorta di cappa di sospetto, ad un senso generalizzato di pericolo come se qualcusa di terribile potesse accadere da un momento all’altro.

In questa dimensione immobile sembrano riecheggiare le parole di Faulkner, che lei ama e cita spesso, che sosteneva l’onnipresenza del passato, nel suo caso per il mondo rurale del sud degli Stati Uniti…

È così anche per queste zone della Francia sospese tra campagna e montagna, dove nulla sembra essere cambiato da tanto tempo. Quando Faulkner scriveva dell’impossibilità dell’evoluzione da una generazione all’altra, dell’impossibilità del cambiamento che rendeva il passato protagonista del presente, pensava, tra le altre cose al tema della schiavitù che continuava a pesare sulla realtà del sud. Per Gus e Abel i giorni si succedono sempre uguali, nella solitudine, e mentre i ritmi e le regole del lavoro nei campi e con gli animali prendono il posto dei sentimenti e delle relazioni umane. Sono bloccati, fermi nella loro dimensione perché non hanno conosciuto che questo, il loro vissuto così simile a quello dei loro padri e, ancor prima, a quello delle generazioni che li hanno preceduti.