Si è concluso ieri sera, con l’atterraggio a Ciampino alle 18.30, il viaggio apostolico in Africa di papa Francesco, l’undicesima trasferta internazionale del suo pontificato, la prima in terra africana.

Il pontefice ha attraversato Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana. In quest’ultima, domenica ha simbolicamente avviato il Giubileo straordinario dedicato alla misericordia (l’inaugurazione ufficiale sarà a San Pietro, l’8 dicembre), aprendo la “porta santa” della cattedrale di Bangui. «Oggi Bangui diviene la capitale spirituale del mondo», ha detto Bergoglio dopo aver varcato la porta. «L’Anno santo della misericordia viene in anticipo in questa terra, che soffre da diversi anni la guerra e l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace. Ma in questa terra sofferente ci sono anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra». E il riferimento alla Siria, alla Palestina, ma anche al terrorismo internazionale appare evidente.

Un atto inedito e simbolicamente significativo quello di dare il via – sebbene in maniera ufficiosa – all’Anno santo in Africa e non in Vaticano. All’interno tuttavia di un evento, il Giubileo, che più tradizionale non si può e che, nonostante l’operazione di decentralizzazione voluta da Francesco, non farà altro che rafforzare il papato e il centralismo romano della Chiesa cattolica, la quale, va ricordato, ha cominciato a celebrare giubilei in piena età medievale, con Bonifacio VIII nel 1300, per affermare la supremazia del potere religioso su quello politico, del pontefice sui sovrani laici.

Se l’apertura della porta santa è stato l’evento principale del viaggio – decisamente più pastorale e sociale che politico, nonostante i numerosi incontri con le autorità civili dei tre Paesi -, il tema chiave dei sei giorni in Africa è stato la pace, introdotto da quel «maledetti coloro che fanno le guerre» pronunciato nell’omelia in Vaticano alla vigilia della partenza: dal papa è arrivata la condanna della guerra e del terrorismo, la denuncia del commercio e del traffico di armi, dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e degli squilibri sociali, l’appello alle religioni ad essere operatrici di pace e di unità e non strumenti di conflitto e divisioni. «La guerra è un affare, un affare grande. ’Il bilancio va male? Facciamo una guerra’. Dietro ci sono interessi, vendita di armi, potere», ha detto ancora ieri sera sul volo che lo riportava a Roma.

«Tra cristiani e musulmani siamo fratelli, dobbiamo dunque considerarci come tali e comportarci come tali», aveva detto sempre ieri Bergoglio visitando la moschea centrale di Koudoukou a Bangui. «Insieme diciamo no all’odio, non alla vendetta, no alla violenza, in particolare a quella perpetrata in nome di una religione o di Dio. Dio è pace, Dio salam». Durante tutto il viaggio è tornato più volte sull’argomento. «La violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione», ha detto in Kenya. E «a tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo», nella messa a Bangui ha chiesto: «Deponete questi strumenti di morte, armatevi della giustizia, dell’amore e della misericordia».

Alle parole e ai gesti netti sulla guerra – a partire dalla scelta di visitare la Repubblica Centrafricana, nonostante molti osservatori sconsigliassero questa tappa a causa dell’instabilità politica del Paese -, non sono state affiancate affermazioni altrettanto nette sui diritti civili delle persone omosessuali. Gli attivisti delle associazioni lgbt – e la petizione internazionale #PopeSpeakOut – avevano chiesto al papa di essere ricevuti in udienza (anche solo privatamente) e di condannare le discriminazioni degli omosessuali in Kenya e soprattutto in Uganda, dove l’omosessualità è un reato penale punito anche con l’ergastolo. Nessun intervento pubblico, invece e, a quanto risulta, nessuna udienza, nemmeno privata. Contraddizioni del pontificato di Bergoglio che ogni tanto riemergono, perlomeno su alcuni temi sensibili.