Com’è fatta la libertà? Una sigaretta, un pezzo di stoffa nero dato alle fiamme, forbici per accorciarsi la barba. A Manbij è la riconquista dei frammenti di vita quotidiana, sotto l’Isis peccati da punire. Emozionano le immagini arrivate ieri dalla città nel nord della Siria: gli abbracci tra le donne costrette in lunghi vestiti neri e le combattenti kurde delle Ypg, le risate degli uomini che si tagliano la barba in strada, le corse dei bambini con le loro mamme, una partita di pallone improvvisata.

Manbij è libera e lo sono anche i duemila civili che gli islamisti in ritirata avevano rapito per farne scudi umani venerdì sera. Nella notte le Forze Democratiche Siriane (Sdf) li hanno ricondotti a Manbij. Un’altra vittoria enorme per le Sdf e il bagaglio che portano con sé, già nel loro nome: gruppi di etnie diverse, arabi, turkmeni, assiri, circassi, e i kurdi di Rojava a guidare le operazioni.

Ma prima di tutto siriani: Manbij da sola rappresenta la ricchezza confessionale ed etnica che in Medio Oriente è stata normalità per secoli. Basta scorrere la lunga lista dei suoi appellativi: Manbij in arabo, Mabuk in kurdo, Mumbuj in circasso, Mabbuh in siriaco. Circa 100mila abitanti, per una storia antica molto più di due millenni e soffocata per due anni e mezzo dallo Stato Islamico che l’ha occupata il 23 gennaio 2014, dopo aver cacciato le opposizioni al governo Assad.

Ieri Manbij è tornata alla sua vita. Ai festeggiamenti della gente si è unita la comunità internazionale che ha lodato i combattenti. Un coro unanime che si spezza 80 km a sud ovest, ad Aleppo. La “capitale del nord” è l’opposto di Manbij: se qui l’unità dei siriani ha permesso la cacciata del nemico comune, lì la guerra civile e la sua galassia di interessi esterni divide e strema la popolazione.

A leggere le notizie da Aleppo ci si perde: i media locali e internazionali riportano frammenti di notizie, utili a foraggiare questa o quella narrativa. E così la stampa iraniana, russa e quella di Stato siriana celebrano i presunti avanzamenti delle truppe governative; quelle mainstream occidentali e i gruppi anti-Assad parlano di strenua resistenza.

I primi elencano i civili uccisi dai missili delle opposizioni (per lo più islamiste, vista la debolezza dell’Esercito Libero che ormai va a rimorchio di qaedisti e salafiti), i secondi quelli nei raid russi.

Sono cento i morti e 700 i feriti imputabili ai “ribelli” dall’inizio di agosto, dicono da Damasco, soprattutto nella zona sud dove si concentrano gli scontri dopo l’occupazione della base di Ramousa da parte delle formazioni islamiste. Che ribattono: il governo ne ha fatti altrettanti in una sola notte in tutto il paese.

Di certo ad Aleppo si muore di fame e di assenza di assistenza medica. Da entrambe le parti, quelle est sotto i “ribelli” e quelle ovest sotto il governo. Di ospedali funzionanti non ce ne sono quasi più: venerdì un raid russo ha colpito un’altra clinica, 18 morti. Quelli ancora aperti, soprattutto nella parte occidentale, sono quasi privi di medicinali e strapieni di feriti, tra soldati e civili colpiti dai missili dei “ribelli”.

La responsabilità è bipartisan, l’inferno è duplice e si sovrappone. Ognuno ha il suo obiettivo, ben consapevole che Aleppo deciderà buona parte della guerra civile. Le opposizioni vogliono impedire una vittoria chiara del governo, continuare a controllare i quartieri già occupati per minare il potere contrattuale di Assad ad un eventuale tavolo del dialogo.

Damasco, da parte sua, sa di non poter eliminare ogni singola sacca di “ribelli”. E allora le accerchia, le chiude in enclavi, che siano città, villaggi o quartieri, circondate da territorio controllato dal governo e prive della continuità fisica necessaria a rifornirsi, militarmente, e a rappresentare un’alternativa, politicamente.

E se la Russia resta in prima linea, gli Stati Uniti si nascondono. Perché ad Aleppo è difficile “schierarsi”: il fronte delle opposizioni, compattato dal mito della battaglia finale, è monopolizzato da un gruppo terrorista (l’ex al-Nusra, oggi Jabhat Fatah al-Sham) che guida però milizie stranamente legittime agli occhi dell’Occidente.

Washington è alle strette, consapevole del pericolo che opposizioni che fanno della negazione dei diritti delle minoranze la stella polare rappresenterebbero per la Siria nel caso amplino il controllo sul territorio.

Viene meno la possibilità di una reale cooperazione tra Usa e Russia, paventata nelle scorse settimane, per colpire i nemici comuni, Isis e Jabhat Fatah al-Sham. Ma con i “ribelli” moderati (finanziati generosamente per anni tramite Golfo, Giordania e Turchia) oggi meri gregari dei qaedisti, la soluzione militare si allontana insieme a quella politica.