Forse Carol Rama amava i letti perché amava i sogni che ci faceva sopra. Sui letti però non dormiva, ed è così che i sogni li partoriva da sveglia: tutto il mondo che le passava davanti, stando sdraiata, diventava nient’altro che il prodotto di un mal digerito impasto interiore. I letti, si sa, raccolgono sogni come salvadanai. La mattina ci trasciniamo fuori, riguadagniamo la verticalità, e però lasciamo sul materasso il dazio dovuto, una parcella – in fantasmi – per essere sopravvissuti a una manciata di ore di inconsapevolezza. Lasciamo alla notte quello che è suo, disciolto nei materassi. Dopo prendiamo la via del giorno sgravati di quello che non volevamo sapere, con appena un’increspatura sul viso che dopo qualche ora sparisce.

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I letti restano lì dentro le stanze vuote, con il loro bottino che ogni notte si accresce. Ci passiamo intorno durante la veglia, ci appoggiamo i cappotti degli ospiti la sera, qualcuno ci si siede sopra per allacciarsi le scarpe. In fondo siamo grati ai letti – ai nostri e a quelli degli altri, che vediamo sempre e solo di sfuggita, dalle porte socchiuse – perché raccolgono quel che sarebbe inopportuno portare alla luce. Sono sgabuzzini in cui stipiamo tutto ciò che è incompatibile con il giorno. La sera poi ci riconsegniamo a loro con rituali ripetuti ogni volta. Ci laviamo, spegniamo le luci, lasciamo i vestiti sopra la sedia, e poi entriamo a piedi nudi nel letto lasciando che la notte faccia di noi quel che le pare.

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Carol Rama

Nella casa torinese di Carol Rama c’erano due letti, e ci sono tutt’ora. L’artista, tra le più visionarie della pittura italiana del Novecento – al crocevia tra grazia, smorfia, erotismo e sberleffo, tra Schiele e Licini – ci ha vissuto in affitto dagli anni Quaranta fino alla settimana scorsa. Sono oltre settant’anni di deposito, di tracce. Lo documenta ancora Il magazzino dell’anima (Skira), il libro elegantissimo che la curatrice d’arte Maria Cristina Mundici ha pensato e realizzato insieme al fotografo Bepi Ghiotti perché di questo luogo – a tutti gli effetti uno straordinario museo delle cose sognate – si conservasse memoria.
Dei due letti, il primo sta nell’atelier dell’artista, s’intravede in una delle foto di Bepi Ghiotti: una stanza, poco oltre l’ingresso, che Carol Rama ha sempre tenuto oscurata da grandi tende nere. Su quel letto – che arriva da un tempo lontano – la pittrice ogni sabato per anni ha ricevuto amici e visitatori.

Su quel materasso è passata la storia del Novecento artistico italiano: Edoardo Sanguineti, Carlo Mollino, Massimo Mila, Giorgio Manganelli, Carlo Levi, Cesare Pavese. Per quella stanza è passata tutta l’avventura pittorica di un’artista unica, defilata e mondana, terrena e aerea, erotica e spirituale. Dagli acquerelli (Dorina, Appassionata, Marta) degli anni Quaranta, con falli, sedie a rotelle, sessi femminili, alle Parche, ai Bricolage degli anni ’60 e ’70, fino alle forme fantastiche (angeli, animali, paesaggi) degli anni ’80 alla serie – meravigliosa – della Mucca pazza dell’ultimo periodo.

Quel letto sta lì anche oggi, attraccato in una specie di insenatura, in mezzo a quel sinistro e insieme liberatorio naufragio di oggetti: scatole di pennelli, forme di legno per scarpe ortopediche ereditate da uno zio che aveva un’azienda di ortopedia, protesi dentarie disegnate («C’erano tutte queste protesi in giro. E allora io ho sempre disegnato anche le protesi. Mi piacevano più le protesi di mia zia che un fiore»), tubolari per bicicletta, locandine di mostre, oggetti e opere dono di Man Ray e Picasso, fotografie che la ritraggono insieme a Andy Warhol, Pasolini, Corrado Levi. A entrare in quella stanza oscura, a sedersi su quel materasso, a guardare quelle forme ortopediche appostate sui mobili, si sta di fronte all’evidenza di un fatto: che solo i grandi artisti hanno il coraggio di lasciare che i sogni escano fuori dai letti, che si sparpaglino per l’appartamento, che camminino con passi di legno nel mondo dei vivi. Su quel letto, in mezzo a quell’inconscio liberato per casa, la notte dormiva una delle due badanti peruviane di Carol Rama.

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Perché nel secondo letto della casa di Carol Rama c’era lei. Se ne stava in un letto uguale a quello dell’atelier, una zattera sbattuta lì dopo il naufragio, spiaggiata con lei sopra sul pavimento di una stanza a due passi dalla cucina. Una foto a due pagine, di Bepi Ghiotti, la ritrae con una coperta a losanghe marroni e nere. È lì che da tempo aveva ormai traslocato: se n’era andata in un luogo della mente a cui nessuno ha più accesso, attorno a cui si industriava la contagiosa vitalità delle sue due aiutanti peruviane e l’affetto operoso di alcune persone, prima tra tutti la stessa Maria Cristina Mundici. Se ne stava oltre la porta chiusa, con il ronzio del ventilatore che dà sollievo a un corpo che ha riconsegnato il mandato e non ne vuole più sapere di alzarsi. Non lontano dal letto, su un cavalletto, l’ultimo disegno a pennarello, fatto in un ultimo colpo di reni nel 2007: il ritratto – irriverente, baffuto, sguaiato – di una delle badanti. A metà del foglio il titolo Graziepregoscusitornerò.

Tutt’intorno, oltre i muri di quel magazzino dell’anima, Torino andava avanti: poco più in là passavano i tram, si alzavano e si abbassavano le saracinesche dei negozi, le macchine in coda suonavano il clacson. Ogni venerdì e sabato sera la movida infuriava ai Murazzi, lungo il fiume, e qualcuno chiamava urlando di notte, qualcun altro tornava a casa che era quasi mattino. Dentro, sdraiata su un letto, a vetri oscurati, c’era una delle più singolari artiste italiane dell’ultimo secolo. Stava lì, in una casa in affitto che era già un museo, di cui si spera che le istituzioni vorranno ora prendersi cura.
Da quel letto Carol Rama sognava, e lasciava che i sogni poi se ne andassero come bolle di sapone a scoppiare contro i mobili. Ora è vuoto anche quel letto. Il suo sonno è il mondo che viviamo.