Omofobia e razzismo, due sintomi spiacevolissimi della English Disease, la malattia che ha fiaccato il calcio inglese negli ultimi decenni del secolo scorso. Quando andare allo stadio a Londra, a Manchester o a Leeds era un’esperienza tutt’altro che rilassante. Le scazzottate tra hooligan, i lanci di banane ai giocatori neri e i cori razzisti erano una spiacevole costante nella maggior parte delle arene d’oltre Manica. Da allora l’acciaccatissimo Beautiful Game ne ha fatta di strada sul cammino della redenzione. Non sono tutte rose e fiori, è ovvio. Per quanto circoscritti, episodi da stigmatizzare ce ne sono ancora. Sugli spalti, ma anche in campo. Proprio su un rettangolo di gioco quattro anni fa l’ex capitano della nazionale inglese John Terry rivolse degli insulti a sfondo razziale ad Anton Ferdinand, fratello del più celebre Rio, nel corso del match di Premier League QPR vs Chelsea. Immediatamente dopo l’accaduto si sollevò un enorme polverone e si discusse a lungo sull’efficacia di iniziative anti-razziste come Kick It Out, secondo lo stesso Rio Ferdinand troppo timida nel suo modus operandi. Certo, è bene ribadirlo, non c’è paragone rispetto a quanto si verificava negli anni Settanta o non più tardi in buona parte dei Novanta. In quelle decadi erano altresì sicuramente impensabili i progressi fatti oggigiorno in merito alla lotta contro l’omofobia. Mentre da noi il presidente della Lega Nazionale Dilettanti Felice Belloli bollava il calcio femminile come uno sport praticato da «quattro lesbiche che chiedono solo soldi», in Inghilterra alcuni tra i principali club professionistici riconoscevano ufficialmente club di tifosi dichiaratamente omosessuali e lesbiche. Dave Raval e Marcel Graves sono soci di alcuni di questi club. Li abbiamo incontrati a Londra, in un pub nell’East End londinese. Precisamente ad Hackney, a due passi da un immenso spazio verde, la domenica teatro di decine di match di football amatoriale.
«Noi dei Gay Gooners siamo in 250. Il 30% è composto da lesbiche, mentre il 15% sono persone che vivono all’estero. Con questi ultimi ogni tanto ci incontriamo allo stadio, altrimenti ci sentiamo spesso tramite i social network. Da un po’ di tempo abbiamo anche il nostro striscione che esponiamo con orgoglio sugli spalti dell’Emirates Stadium (l’impianto dell’Arsenal, ndr)» ci spiega Dave, supporter della compagine londinese. Proprio l’Arsenal è stata la prima società calcistica inglese a riconoscere ufficialmente nel 2013 un club di tifosi gay, mentre i primi in assoluto ad associarsi sono stati i Gay Villans (supporter dell’Aston Villa) verso la fine dello scorso decennio. Ora sparse per il Paese di realtà di questo tipo ce ne sono altre 20, nate nel breve spazio di 2-3 anni. «In realtà – ci racconta ancora Dave – anche 20-30 anni fa c’erano piccoli gruppi ’clandestini’, che finivano per incontrarsi in alcuni pub soprattutto in occasione delle trasferte». I rapporti con l’Arsenal sono molto buoni. «L’allenatore francese Arsene Wenger non perde occasione per sostenerci, inoltre ogni tre mesi incontriamo la dirigenza e ci coordiniamo con loro per portare avanti una serie di attività. Per esempio prima di una partita dello scorso febbraio, che nel Regno Unito era il mese della Storia LGBT, abbiamo sfilato in campo con il nostro striscione. Con noi c’era anche l’ex giocatore Pat Rice, una delle leggende della squadra del recente passato. Nel corso di quella partita sui pannelli elettronici a bordo campo sono apparse una mezza dozzina di volte la bandiera arcobaleno e il messaggio ‘L’Arsenal è per tutti’».

Che la compagine del nord di Londra sia attivamente impegnata a difendere i diritti dei suoi tifosi gay ce lo dimostra un altro episodio accaduto al principio del 2015. L’Arsenal doveva giocare un match di coppa a Brighton, che ha fama di essere la città più gay friendly del Regno Unito. Per questo motivo quando vi si recano le tifoserie in trasferta intonano spesso il coro «il tuo ragazzo sa che sei qui?» ai supporter avversari. «Una forma di omofobia a ‘bassa intensità’, ma pur sempre da stigmatizzare», ci dice Dave. «Per questo abbiamo segnalato la cosa all’Arsenal, che ha mandato una email a tutti coloro che avevano comprato il biglietto per la partita con il Brighton e messo un avviso nel programma del match casalingo che ha preceduto quella sfida di coppa per chiedere espressamente di non cantare quel coretto. Le 3-4 persone che lo hanno fatto sono state subito bloccate da altri spettatori e dalla polizia». Il cambiamento culturale è ormai in atto. Omofobia e razzismo iniziano a non essere più tollerati, tanto che molte persone che assistono ad atti discriminatori non rimangono passive. Ben altro contesto, rispetto a quando negli anni Ottanta le società di calcio «dissuadevano» i supporter neri a seguire i loro team in trasferta perché non potevano garantire la loro incolumità o gli slogan omofobi erano ricorrenti pressoché ovunque. Anche Dave e Marcel sono sorpresi dalla velocità con cui si stanno verificando tutti questi passi in avanti, senza dubbio agevolati dalla campagna nazionale «Football vs Homophobia». «Per la squadra per cui faccio il tifo, il Norwich City, negli anni Ottanta ha giocato Justin Fashanu. Un giocatore omosessuale che è stato profondamente discriminato nel mondo del football, persino da suo fratello John, anche egli un famoso calciatore». Accusato in maniera pretestuosa di molestie sessuali, Justin si suicidò a soli 37 anni.

«A febbraio tutti i giocatori del Norwich hanno messo agli scarpini i lacci con i colori dell’arcobaleno e anche il nostro club, i Proud Canaries, ha il rispetto e l’attenzione che merita» racconta Marcel. Dave ci tiene a sottolineare gli aspetti su cui bisogna ancora lavorare. «A Londra i club di tifosi gay non hanno mai avuto problemi. La nostra è una città molto aperta e tollerante, però altrove so di episodi poco edificanti». Marcel ci conferma l’esistenza di situazioni poco piacevoli parlando della sua esperienza in una squadra dilettantistica composta da omosessuali. «Alla fine ho smesso perché non mi sentivo completamente a mio agio in quel contesto». Nell’ambiente del calcio i pregiudizi sono duri a morire, come ci dimostrano vari «incidenti» occorsi sui social network, in particolare su Twitter, e che hanno visto protagonisti degli «addetti ai lavori». Tra questi Ravel Morrison, da poco messo a contratto dalla Lazio, e l’opinionista ed ex centravanti del Liverpool Stan Collymore, entrambi colpevoli di aver scritto tweet con insulti omofobi. Un giocatore della Premier League gallese, Daniel Thomas, è stato addirittura arrestato per i pesanti apprezzamenti espressi via Twitter contro il tuffatore della nazionale olimpica britannica Tom Daley. Ironia della sorte, un altro Thomas, Gareth, capitano della nazionale di rugby gallese, è stato il primo sportivo britannico a fare coming out mentre era ancora in attività, nel 2009. Un gesto che ha avuto una grande eco a livello nazionale e internazionale. Per la verità c’è un calciatore con un passato nella Premier League inglese che ha dichiarato pubblicamente di essere omosessuale. È il tedesco ed ex centrocampista dell’Aston Villa Thomas Hitzlsperger, che però ha rivelato il suo segreto dopo aver lasciato l’attività agonistica. A quando dei coming out di giocatori nel pieno della loro carriera? «Ti posso dire che all’interno delle squadre si sa benissimo se ci sono dei loro componenti che sono omosessuali, e ce ne sono. Però esternamente questa cosa non trapela ancora», mi assicura Dave, che si fa una risata quando gli ricordo le dichiarazioni rilasciate qualche tempo fa dall’ex allenatore della nazionale italiana Marcello Lippi – «In 40 anni di calcio non ho mai conosciuto un calciatore gay» – e di Antonio Cassano – «Gay in nazionale? Sono problemi loro. Ma spero di no». Se in Inghilterra ci si lamenta che la Football Association potrebbe fare di più sulla questione, che cosa dovremmo dire noi in Italia, dove è facile prevedere che club come i Gay Gooners o i Proud Canaries avrebbero parecchie difficoltà a farsi accettare?