Quella del licenziamento discriminatorio è una difesa di retroguardia e l’impatto concreto di tale forma di tutela non è adeguata alle aspettative che in essa si tentano di riporre.

Dimostrare in giudizio la discriminatorietà dei licenziamenti è cosa molto complicata. Per tre motivi principali:

  1. spetta al lavoratore o alla lavoratrice indicare i fatti a sostegno della sua tesi;
  2. per riconoscere una discriminazione, nella giurisprudenza italiana, sono in gioco elementi soggettivi;
  3. la motivazione discriminatoria deve essere determinante, vale a dire unica.

Il licenziamento, per essere valido, deve avere una valida motivazione e la prova di tale motivazione spetta al datore di lavoro. Quando si contesta la natura discriminatoria di un licenziamento, il percorso è invece più articolato e problematico. Quello che va dimostrato è anche che sussiste da parte del datore di lavoro l’elemento intenzionale: è prevista cioè la dimostrazione di elementi soggettivi.

Diversa è la situazione nella normativa comunitaria che non sembra però essere ancora stata accolta dalla giurisprudenza italiana. La normativa comunitaria in tema di discriminazioni si riferisce unicamente alla valutazione dell’esistenza di una discriminazione, non richiedendo né la consapevolezza né l’intenzionalità della sua produzione in capo a chi l’ha commessa. Sostituisce l’elemento soggettivo con quello oggettivo: occorre semplicemente valutare se un determinato soggetto, in virtù della sua condizione o delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sia stato trattato un altro soggetto, in una situazione simile.

Per comprendere il terzo motivo per cui il riconoscimento di un licenziamento discriminatorio è così complicato, facciamo un esempio: viene licenziata una persona al posto di un’altra e questo perché è una donna, si è appena sposata, ha tre figli di cui occuparsi o ha rifiutato un’avance. Quella lavoratrice potrà impugnare il licenziamento, ma perché venga riconosciuto come discriminatorio, dovrà essere in grado di dimostrare che il motivo stesso della discriminazione ha avuto “rilevanza determinante”.

Questo significa che se il datore di lavoro riuscirà a dimostrare invece la validità di un’altra ragione posta formalmente a fondamento del licenziamento (per esempio che per esigenze aziendali doveva sopprimere un posto che risultava in esubero) questa seconda ragione prevarrà comunque sui profili discriminatori contestati. La motivazione discriminatoria alla base del licenziamento, passerà in secondo ordine.

Certo, dopo dichiarazioni, interviste e ordini del giorno, non abbiamo un testo su cui ragionare e per ora possiamo procedere solo per ipotesi. Se dell’articolo 18 o di quel che ne rimane venisse lasciato in piedi semplicemente il licenziamento discriminatorio, la norma andrebbe quanto meno ritoccata, in modo da superarne le strettorie applicative che, attualmente, precludono di fatto l’accesso ad una soglia di tutela soddisfacente ed efficace.

Non va infine dimenticato di cosa stiamo parlando.

La reintegrazione piena prevista dall’articolo 18 rappresenta una tutela, per così dire, di secondo livello: assicurando più ampie garanzie in caso di licenziamento, permette ai lavoratori e alle lavoratrici di esercitare con maggiore libertà i propri diritti anche mentre il rapporto è in corso.

Funziona in uscita ma, in fondo, anche durante e fin da subito.

Tutelarlo significa tutelare il lavoro stesso.