Questa volta è stato il pericolo dell’invasione di migranti che partono dalle coste libiche, evocato ieri dal direttore di Frontex, a far tremare le sedie dei negoziatori. Insieme allo stallo della produzione petrolifera e all’avanzata jihadista sono i tre punti dolenti che rendono la crisi libica così determinante per placare il conflitto che dilania il Nord Africa. E così a Rabat i colloqui per finalizzare un accordo provvisorio tra i militari filo-Haftar e gli islamisti di Tripoli hanno subito un’accelerazione degna di nota. L’esercito della Cirenaica ha avviato il primo dei tre giorni di cessate il fuoco, preceduto dai bombardamenti dell’aviazione di Tobruk sull’aeroporto di Tripoli. I leader delle tribù libiche e i rappresentanti dei due governi che si spartiscono il paese si incontreranno nei prossimi giorni anche a Bruxelles per fronteggiare l’avanzata fuori controllo dei jihadisti ed evitare nuovi possibili attacchi egiziani, dopo i bombardamenti di Derna di fine febbraio.

Ieri si è discusso anche del profilo che dovranno avere i ministri e il premier di un possibile governo tecnico di unità nazionale. L’altro tema caldo a Rabat è la messa in sicurezza dei terminal petroliferi, da giorni nel mirino dei jihadisti. Il pressing dell’inviato delle Nazioni unite, lo spagnolo Bernardino Léon, dell’Alto rappresentante della politica Estera dell’Ue, Federica Mogherini, e la mediazione dei diplomatici marocchini, sta portando alla definizione dei dettagli tecnici di un accordo per un difficilissimo ripristino delle minime condizioni di sicurezza sul campo. Anche per questo l’Onu ha deciso di prorogare la missione Unsmil in Libia fino alla fine di marzo. I governi italiano, e l’asse con Mosca sancito dalla visita di Renzi nella capitale russa, tedesco e francese fanno pressioni per il raggiungimento dell’intesa in tempi stretti. Ma Roma, Parigi e Mosca sarebbero pronte a intervenire al fianco del sodalizio Sisi-Haftar in caso di fallimento dei colloqui.

Al-Sisi però è costretto a fronteggiare non poche magagne in politica interna. L’ex generale ha incassato un importante successo: l’annullamento delle elezioni parlamentari, in principio previste da marzo a maggio. La Corte costituzionale si è espressa sulla legge elettorale chiedendo una riforma delle circoscrizioni e di fatto spostando il voto sine die. Sono tre anni che l’Egitto non ha un parlamento. Dopo l’elezione dell’islamista moderato Mohamed Morsi, le elezioni parlamentari vennero cancellate nell’aprile 2013, nonostante i Fratelli musulmani fossero favoriti nella competizione elettorale. Non solo, il parlamento divenne merce di scambio nel giugno 2012 per riconoscere la vittoria del presidente islamista. Da quel momento, con lo scioglimento dell’Assemblea del popolo, controllata dagli islamisti, si è aperta la strada per l’estromissione dalle cariche politiche del movimento e per il golpe militare del luglio 2013. Al-Sisi non sarebbe ancora pronto per affrontare la competizione elettorale, timoroso del ritorno in grande stile degli uomini dell’ex presidente Hosni Mubarak, con cui dovrà scendere a compromessi se vorrà usare la solida struttura politica del Partito nazionale democratico per dominare il nuovo parlamento.

Eppure al-Sisi ha incassato anche un rimpasto di governo che suona come una resa dei conti. Il sanguinario ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim, responsabile di aver messo in atto il massacro di Rabaa al-Adaweya nell’agosto del 2013, è stato sostituito con il generale Magdy Abdel Ghaffar, ex poliziotto e uomo della Sicurezza di Stato. Questa mossa segna il rafforzamento del ministero dell’Interno a discapito del controllo diretto dei militari sulle attività della polizia e potrebbe, nel lungo periodo, colpire al cuore la stessa capacità di al-Sisi di consolidare il suo potere. Sulla stessa scia, vanno lette le rivelazioni, pubblicate nei giorni scorsi dalla stampa locale, che confermano come la campagna per le dimissione di Morsi, Tamarod (rivolta), sia stata finanziata dagli Emirati per aiutare il ministero della Difesa, allora nelle mani di al-Sisi, con lo scopo di rimuovere il presidente islamista. Insieme alle intercettazioni diffuse alla fine dello scorso anno che inchiodano la magistratura egiziana, colpevole di aver tenuto l’ex presidente in custodia in un luogo sconosciuto, sono ormai innumerevoli i tentativi di minare la strada di al-Sisi per il totale controllo dei meccanismi dello Stato e dare linfa al ritorno degli uomini di Mubarak. In Libia queste dinamiche potrebbero avere effetti determinanti rafforzando o meno il tentativo di Haftar di conquistare il potere a Tripoli.