Le cose, una volta venute al mondo tendono a restarci. E con tutta probabilità erano già lì anche prima di «comparire». Ma allora perché abbiamo così tanta paura di dimenticarle? Perché l’oblio è così spesso associato a una dimenticanza assoluta e perciò mortale? Henri Bergson non era tanto stupefatto dalla nostra capacità di ricordare quanto dalla facilità con cui dimentichiamo. Perché, in effetti, se tutto il nostro passato, il «passato in generale», è coestensivo al presente, si forma con esso essendogli fedele in ragione di una contemporaneità fondamentale, non lo ricordiamo tutto e, magari, tutto insieme, in uno stesso istante? Un certo oblio è consustanziale alla vita, alla vita felice. Questo è il ritornello che insiste sin dalla notte dei tempi, sin dalle Mille e una Notte. Così, per esempio, il lavoro del lutto necessita di un quantum di Lete per compiersi e lasciare a Mnemosine la custodia dell’oggetto, l’ideale o la persona cara che non ci sono più. Ma allora perché così spesso, almeno in apparenza, è il dimenticare la fonte di maggiore sofferenza? Le prime pazienti della psicoanalisi soffrivano di reminiscenze. Nessuna lesione organica spiegava la contrattura isterica. Le belle indifferenti erano anzitutto indifferenti al tempo, al suo trascorrere inesorabile. Eppure, dopo più di cento anni, siamo proprio sicuri che fossero dei «ricordi» in senso stretto la causa del loro lamento e delle loro paralisi?

«A chi mostrasse la tendenza a sopravvalutare lo stato attuale delle nostre conoscenze della vita psichica, basterebbe ricordargli la funzione mnemonica per costringerlo alla modestia». Così Freud, in Psicopatologia della vita quotidiana, ammonisce la hybris di chiunque voglia affrettarsi a dimenticare la complessità dello psichico, ossia del processo fondamentale del ricordare e del dimenticare. In questa complessità è infatti sempre del soggetto in quanto indeterminato che si tratta. «Oblivium – ha scritto Lacan- è levis con la e lunga – levigato, unito, liscio. Oblivium è ciò che cancella – che cosa? Il significante come tale». È qui che si trova, secondo lo psicoanalista francese, la struttura fondamentale che rende possibile, in modo operativo, il fatto che qualcosa assuma la funzione di depennare e cancellare qualcos’altro. Ma cosa spiega il «sorso di Punch al Lete» che sembra costituire ogni soggetto quasi in senso trascendentale?

È un sorso letale o vivificante, dissolutivo o energizzante? Riabilitare l’oblio, questo il progetto esplicitamente condiviso dagli autori del denso e coraggioso volume a firma di Daniela Angelucci, Paolo Carignani, Felice Cimatti, Antonio Ciocca, Alessandra Ginzburg, Walter Procaccio, Silvia Vizzardelli, Oblio (Cronopio, pp. 168, euro  15,00): denso perché esplora i diversi meandri della memoria e le molteplici sfumature dell’oblio difendendone anzitutto la natura di processi e non di semplici fatti; coraggioso perché, come scrive Walter Procaccio nell’introduzione, «una sterminata letteratura conferisce alla memoria, all’archiviazione diligente e alla testimonianza il rango di dovere etico e all’oblio quello di perdita tragica e colpevole di qualcosa che invece dovrebbe permanere». Coraggioso, quindi, e inattuale. Coraggioso perché inattuale. Inevitabile allora prendere le mosse (Felice Cimatti) o approdare in ultima battuta (Silvia Vizzardelli) alla celeberrima e inattuale tesi nietzscheana che, alle porte del XX secolo, il secolo della Memoria, invitava a riflettere sulla sua utilità o meno rispetto alla vita. Oblio, si chiede Alessandra Ginzburg in apertura al suo saggio, «perdita o conquista?» Prima di Nietzsche, fu però la cultura greca a intuire il potere solvente e salvifico di una certa dose di oblio.

È allora sfidando una plurisecolare tradizione che ha pensato il rapporto tra memoria e oblio sul modello di un insanabile dualismo pulsionale, che ciascun saggio di questo ricco volume prova a percorrere alternativamente i rapporti tra la facoltà erotica del ricordare e quella mortifera dell’eterna dimenticanza. E lo fa contravvenendo immediatamente all’opinione comune che fa della memoria una virtù e una capacità essenziale alla vita relegando, di contro, il perfido oblio nel regno di una morte eterna (Carignani). Il fuoco virtuale che alimenta, non troppo segretamente, ciascuno di questi tentativi è, per la verità, una certa attenzione alla disattenzione, un interesse riservato a un preciso disinteresse. È infatti solo quando il ricordo fallisce che la memoria trionfa. «La vera memoria – azzarda Daniela Angelucci nel suo contributo – è quella in cui ci installiamo nel momento in cui dimentichiamo tutto il resto». Memoria sive Oblio: questa è la tesi paradossale che circola, a mo’ di causa segreta, come una Cosa velata, tra le serie in cui si articola il testo. I suoi corollari, non meno paradossali, sono l’affermazione di una differenza, si direbbe radicale, tra ricordo e memoria, dimenticanza e oblio. Il che produce, quasi ipso facto, la trasvalutazione di ciascuno di questi quattro termini e la calma (Procaccio) sensazione di divenire O-blio (Antonio Ciocca).