«Cerchiamo la letteratura nel conflitto sociale e il conflitto sociale nella letteratura». Così si apre la nuova edizione di Letteraria, la storica rivista di letteratura sociale fondata da Stefano Tassinari, divenuta col tempo il testamento politico-narrativo del grande autore bolognese prematuramente scomparso. L’obiettivo del collettivo redazionale, tra cui spiccano i nomi di Carlo Lucarelli, Girolamo De Michele, Pino Cacucci e molti altri esponenti del romanzo più o meno convenzionale italiano, è di dare voce a forme di resistenza culturale e militante. «Narrare altrimenti», secondo quanto ci ricorda lo scrittore Wu Ming2, che non significa solo raccontare altre storie da un altro punto di vista, ma farlo «in un altro modo», cambiando prospettiva, linguaggi, abbandonando «zone di comfort» culturale per addentrarsi nei meandri della narrazione dominante smontandola pezzo per pezzo.

In tempi di Expo, di ministri dimissionari, di piccole e grandi corruzioni, il punto di partenza prescelto non poteva non riguardare le «grandi opere», anzi, per dirla con gli autori della rivista, le «Grandi opere dannose inutili e imposte». Perché da un decennio abbondante l’idea stessa di grande opera ha smesso i panni tecnici dell’intervento infrastrutturale per assumere quelli di ideologia dello sviluppo economico. La grande opera non più come intervento a volte utile all’ammodernamento di un territorio, ma strumento per uscire da una crisi produttiva che però, qui si situa la contraddizione, contribuisce a generarla. Il numero monografico contribuisce a svelare la dinamica economica sottointesa ai principali interventi infrastrutturali del nostro paese.

Una serie di opere pagate con la fiscalità generale ma appaltate ad operatori privati che però, quasi sempre, vengono esentati da qualsiasi rischio gestionale (cioè dai debiti che l’opera genererà). Come si evince da uno dei contributi della rivista, «la catena perversa è sempre la stessa: il committente pubblico affida in “concessione” la progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (Spa), ma con capitale tutto pubblico. A carico dello Stato rimane il rischio della “gestione” e dunque del cosiddetto project-financing».

Opere che dunque contribuiranno al debito pubblico garantendo i privati da ogni rischio d’impresa. Opere, quasi sempre, inutili o quantomeno sottoutilizzate, come dimostrato dall’analisi fatta sulla stazione dell’Alta Velocità di Reggio Emilia progettata da Calatrava, un mastodontico serpente di vetro, acciaio e calcestruzzo di mezzo chilometro che racchiude una stazioncina di provincia di soli due binari.
È però il messaggio politico il salto di qualità soggiacente all’ideologia delle grandi opere, che si trasformano nella concretizzazione materiale delle «grandi intese». Identificando grande opera con modernizzazione, ogni opposizione ai megaprogetti viene associata a forme di reazione al progresso, con buona pace delle popolazioni residenti, dei comitati territoriali, e della stessa logica economica.

L’ideologia delle grande opera postula che fuori di essa ci sarebbe posto solo per forme di populismo reazionario o, peggio ancora, ribellismi ingenui quanto illegali. Le grandi opere si configurano allora come sineddoche dell’Italia ai tempi della crisi. Una parzialità che riesce a descrivere la complessità della situazione italiana, del suo decadimento culturale e politico, della tossicità di narrazioni imposte come naturali e che invece andrebbero sempre più decostruite attraverso nuove culture di resistenza.