Limitandosi a soli due film all’anno, e avendo ampiamente superato la soglia di una filmografia che vanta oltre un centinaio di titoli, Miike Takashi ritorna alla Quinzaine des Realisateurs, dalla quale mancava dal 2003, anno di Gozu, scelto dall’allora delegato François Da Silva e liquidato da Libération come «du Buñuel à la moulinette trash» (ossia Bunuel nel passatutto trash). Insignito del Maverick Award durante l’ultima edizione mülleriana del Festival Internazionale del Film di Roma, Miike torna alla carica con Yakuza Apocalypse (Gokodou daisensou). In linea con Mogura no uta – Sennyû sôsakan: Reiji e Kamisama no iu tôri, Yakuza Apocalypse appartiene al filone manga-anarco-punk-nichilista della produzione del regista. Kamiura, un potentissimo boss, è in realtà un vampiro.

Ucciso da Kyoken, letale esperto di arti marziali, emissario di un potentissimo gruppo yakuza che vuole che Kamiura rientri nei ranghi, riesce a mordere in fin di vita il suo braccio destro Kageyama che acquisisce così la sua immortalità e potenza. Il problema è che il virus vampirico si diffonde, contagiando la città. I pochi non vampirizzati sono yakuza che non hanno più vittime cui… succhiare il sangue. Miike, pur nel caos di un film lunghissimo tutto urla e furore, decostruisce l’economia parassitaria mafiosa mettendone in scena la fine per (auto)consunzione. Che fare quando non ci sono più vittime da sfruttare? Semplice: si piantano (letteralmente!) nuovi cittadini che spuntano dalla terra come Teletubbies. La vena nichilista di Miike, la tentazione mai nascosta di annientare il mondo e farla finita con il genere umano, fa il paio con la sua violentissima opera di distruzione dei generi tradizionali nei quali si muove.

L’apice della follia di Yakuza Apocalypse è l’apparizione di un’enorme rana verde (citazione del Kermit dei Muppet) a sua volta parodia/omaggio dei kaiju eiga (film di mostri giapponesi) e di attori come Kenpachiro Satsuma che hanno indossato la pelle di Godzilla. Lavorando il grado zero dell’effetto speciale, opponendogli una violenza tanto estrema quanto ironica, Miike crea un film frenetico e paradossalmente statico, come se nell’entropia evocata da elementi tanto eterogenei tutte le componenti del film raggiungessero una sorta di frenetica stasi (ossimoro obbligato). Sotto la lercia tuta da rana, infatti, si cela solo un’altra… maschera di rana. Il motore della distruzione, pur funzionando a pieno regime, è inerte. Nessuno muore, tutto si distrugge, e tutto ritorna.

Eternamente. Ed è per questo motivo che il film, tematizzando la fine del consumo prodotto dall’economia yakuza, si offre anche come una riflessione, fortissima e sconcertante, su un cinema che continua instancabilmente a divorare i medesimi elementi. Di questo consumo ossessivo il gesto filmico di Miike è l’indicatore più lucido contenente in sé la sua stessa critica. La ripetizione ossessiva di un’economia del segno che vampirizza il mondo provoca il collasso delle sue strutture portanti. Yakuza Apocalypse è il riflesso di un’economia e del suo pensiero produttivistico che giunta alla metastasi dell’ideologia dei suoi imperativi, non può che contemplare impotente la sua fine per eccesso. Non a caso il film termina quando dovrebbe iniziare. Come dire: tutto quel che avete visto è un prologo, una ripetizione. Il film inizia ora, ma non c’è più tempo.