La manifestolibri ha da poco pubblicato l’ultimo lavoro di Marco Bascetta, Al mercato delle illusioni. Lo sfruttamento del lavoro gratuito (pp. 77, euro 8). L’analisi della diffusione del lavoro gratuito parte dalla considerazione della sua forma eterogenea, collegandosi, seppur non esplicitamente, a ciò che altrove è stato definito come «moltiplicazione del lavoro», ossia rottura di uno statuto di unicità delle forme dello sfruttamento contemporaneo. Per comodità analitica l’autore separa in due porzioni il bacino del lavoro gratuito. Il lavoro gratuito inconsapevole è stata la prima forma ad imporsi sulla scena contemporanea, a partire dagli anni Settanta. Esso riguarda quel lavoro potenzialmente produttivo speso in una molteplicità di attività concrete, come intervenire in un social network o rilasciare i propri dati su internet. Più in generale si tratta di ciò che nella saggistica è stata definito come estrazione di valore dalla cooperazione sociale.

Il libro, però, si sofferma giustamente sull’espressione più recente, quella del lavoro gratuito consapevole. In questi casi il lavoratore sa di svolgere un lavoro senza contropartita monetaria, poiché la contropartita salariale che renderebbe regolare la compravendita di forza-lavoro viene rinviata sine die. È qui che entrano in gioco i dispostivi ideologici e normativi dell’economia politica della promessa. Il lavoratore offre la propria prestazione gratuitamente con la promessa di un lavoro futuro o solo di un miglioramento dell’attuale. All’origine di questo processo operano tendenze macroeconomiche, che rendono possibile questa forma di soggettivazione: quanto più l’occupazione è scarsa o è difficile trovare il lavoro desiderato, quanto più alto è il rischio di divenire poveri, maggiore sarà la disponibilità ad accettare lavoro gratis. Evidentemente la violenza dell’economia politica della promessa trae ossigeno dalla prospettiva «stagnazionista» maturata nella crisi.
Dire economia politica della promessa – e questo è uno dei punti più promettenti di questa ricerca – significa ristabilire nuovi terreni per la critica dell’economia politica marginalista. Il libro offre notevoli spunti ed il filo che li annoda riguarda lo scivolamento sul livello delle soggettività di teorie economiche formulate inizialmente per le imprese, come nel caso dell’investimento.

Abbiamo assistito dapprima al fatto che l’investimento – secondo la dottrina marginalista – ha smesso di essere (come lo era stato per gli economisti classici e per Marx) un’anticipazione monetaria dei capitalisti finalizzata all’acquisto di macchine e al pagamento di salari (c’è voluto un periodo lungo un secolo circa). Una operazione economica che nel decidere il quando, il come e il cosa della produzione, su un altro versante (acquisto di forza-lavoro), doveva sottostare al vincolo storicamente determinato del salario di sussistenza. Nell’esegesi marginalista l’investimento è diventato nient’altro che la scelta di allocare risorse scarse tra diverse opzioni alternative. Così facendo è stato compiuto l’imbroglio di far scomparire qualsiasi riferimento alla teoria del salario. Una volta scomparso tale riferimento, le trasformazioni del lavoro lungo il ciclo neoliberale e l’affermazione del lavoro gratuito, hanno fatto il resto.

Qui rientrano in gioco le intuizioni di Bascetta, quando ci mostra l’esistenza di una doppia forma di investimento, gerarchicamente ordinata. Dapprima l’impresa, in virtù di un «capitale fittizio» – che consiste nel prestigio o nella reputazione rivestita nel mercato – può permettersi di acquistare senza moneta la forza-lavoro del lavoratore non-retribuito. Secondariamente, questo lavoratore sarà portato a vedere la sua prestazione di lavoro neo-servile come un investimento sul proprio capitale umano. Anzi, ancora più a fondo, vivrà questo investimento come l’occasione di una «innovazione interiore», secondo l’autore. Conducendo Schumpeter – la sua ipotesi di innovazione come risposta alla crisi – dal luogo dell’impresa a quello della propria vita.

L’autore, inoltre, completa l’analisi mostrando come la crescita del lavoro gratuito è dovuta anche al suo sporgersi oltre la logica stessa della promessa, come conseguenza di quei dispositivi che in maniera coatta alimentano la diffusione di lavoro a salario-zero. Il libro offre alcuni esempi empirici: dal workfare, al cosiddetto «baratto amministrativo», fino alle forme contrattuali che hanno reso possibile il lavoro a gratis.
Il libro si conclude con l’ipotesi politica che solo forme di «sciopero sociale» potrebbero essere in grado di inceppare questa macchina produttiva. Le conferme ci vengono dagli esperimenti italiani del 2014 fino alla mobilitazione francese della Loi travail di quest’anno.