Raffaele La Capria, l’uomo elegante che si profonde in sperticato elogio di Monicelli e dice che vorrebbe invecchiare come lui, e detto così sembra una boutade giacché sta vivendo come lui, lucido, ironico, presente, a differenza di quello calmo e attendista, che la prima volta che andai a casa sua, tanti anni fa, avevo sbagliato indirizzo ed ero entrato a Palazzo Grazioli e in un nanosecondo c’era mancato poco che i carabinieri non mi buttassero ‘faccia a terra e mani dietro la schiena’, ed io ad insistere che proprio lì dovevo andare, e quelli che avevano realizzato allora che fossi un novello Zamboni in missione per accoppare Berluska, e poi quando l’equivoco s’era chiarito mi avevano fatto tante scuse e spolverato la schiena quasi a pulire la mia giubba e lui, Dudù, eccolo qua in piedi sull’uscio dritto come un virgulto (e Dudù è il soprannome di Raffaele non il nome del cane del lombardo) ad aspettare il suo ospite, e mi introduce in un salotto oblungo tappezzato di libri, di prime edizioni, di riviste da archiviare. Prima dell’intervista parliamo di tutto un po’, se ha in animo di scrivere un nuovo romanzo (no,non ne ha voglia), del mio lavoro e mentre siamo intenti al chiacchiericcio ecco planare sulla terrazza un gabbiano reale e al mio volto incantato fa da contraltare l’agghiacciante miagolio di un gatto in calore. «Quando è in calore – dice – ci rompe i coglioni dal mattino alla sera», «Ma quel gabbiano è uno spettacolo» faccio io e lui, di rimando «Viene sempre qui perché gli diamo da mangiare. Di fronte alla fame superiamo i precetti che vogliono vedere nei gabbiani dei nemici, ma come fai ad essere così razionale di fronte alla fame? Insomma,tra gatti e gabbiani…»
Ha influito sul nostro tessuto culturale la ‘napoletanità’? Ma, soprattutto, come si può definire il sentimento di ‘napoletanità’?
‘Napoletanità’ è un termine brutto, che non mi piace. Vorrebbe inquadrare le consuetudini napoletane, diciamo così, un’adesione a certe cose che nascono a Napoli, quell’eterno discorso autoreferenziale su Napoli che io trovo negativo perché diventa retorico, una forma retorica – diciamo così – che fissa certe idee su certi concetti che a me sembrano superati perché Napoli è una città che a buon diritto può dirsi europea, più di tante altre.
Voglio introdurre la prossima domanda con un episodio che mi è capitato. Attraversavo, anni fa, i Quartieri Spagnoli quando una donna fa scendere un cestino tenuto da una corda fino al mio volto; nel cestino c’erano -mi pare- mille o millecinquecento lire e lei mi chiede se posso comprarle il giornale. Le chiedo allora se non ha timore che io possa scappare con il denaro e lei, per tutta risposta, fa «E se vuie ve ne fujite pe’ mille lire siete messo male assai e allora io prego per voi e vi compassiono» (Dudù ride fragorosamente). Rimasi affascinato dalla cultura e dalla filosofia di vita che esprimeva questa gente. La domanda è: come è possibile che un filosofo napoletano possa convivere ed accettare l’orrore della camorra?
Napoli rappresenta comunque una sacca di ritardo che evoca un mondo che ci sembra sorpassato, ma contro una modernità che è diventata veramente cinica questo modo un po’ antico di vedere la vita e i rapporti umani sta diventando impotente perché diventa una difesa contro questo tipo di modernità. Detto questo la criminalità è qualche cosa che nasce dal bisogno e anche da un estremismo che nasce sempre dalla impossibilità di fronteggiare la vita in modo civile. Quando invece ci sono queste sacche di vite perdute – Napoli è circondata da una periferia spaventosa – allora la criminalità trova molto spazio soprattutto tra i giovani disperati. E questa qui è una versione, come dire, bonaria poi c’è la versione più spietata, che la criminalità c’è sempre stata ed è maggiormente presente in quelle comunità dove la vita sociale è più difficile. Napoli è una sorta di Giano bifronte: da una parte c’è la camorra, dall’altra trovi una fraternità antica fra la gente. Un esempio: conosci la consuetudine del ‘caffè sospeso’? (annuisco, ndr) Questo è.
Ho scritto due volte, senza risposta, a De Magistris criticandolo per aver baciato la mano di un prelato. Sbaglio o è nelle cose?
Dimentichi che la politica è una scienza non esatta e spesso la politica è ruffiana, si adatta certe volte a situazioni che le convengono perché possano avere un’efficacia temporanea che il mondo morale non approva. Infatti c’è una distinzione enorme tra la politica e la morale che non sono categorie consanguinee.
Si può parlare di cenacolo parlando di te, di Rosi, di Patroni Griffi, di Giorgio Napolitano, di Antonio Ghirelli?
Si può parlare di generazione non di cenacolo perché il cenacolo presuppone una contiguità, una unità di scopi che noi non praticammo perché ciascuno di noi lavorò per sé. Ciononostante i pensieri di quella generazione ci accomunano. Molti di quella generazione, ad esempio, continuano ad essere di sinistra e, anche, di estrema sinistra. Diciamo che politicamente ed intellettualmente avevamo delle contiguità ma non ci fu un travaso di idee.
Come inizia la tua amicizia con Rosi e con Patroni Griffi?
Comincia dall’inizio dei tempi, al tempo degli assiro-babilonesi! Cioè da quando eravamo adolescenti, a 12/13 anni,dall’epoca della scuola. Cominciammo facendo i primi tuffi a Posillipo e poi a confrontarci con i libri che andavamo via via leggendo. Con Ghirelli e Patroni Griffi andavamo a scuola insieme, al 1° ginnasio. Poi capitò che ci trasferimmo a Roma tutti più o meno nello stesso anno. Rosi a Napoli non riusciva a fare i suoi film ed io non avevo un soldo, volevo guadagnarmi da vivere con la scrittura. Fu così che a Roma cominciai a lavorare in Rai, ai servizi culturali. E qui, a Roma, conobbi tutti gli intellettuali romani. Fu proprio a Roma che scrissi Ferito a morte: per parlare della tua realtà sembra quasi che te ne devi allontanare.
Roma e Napoli, nella tua geografia esistenziale, sono comparabili all’equazione delle ‘due città’, Roma e Torino, di soldatiana memoria?
In un certo senso sì. Ti posso dire che Roma mi fa sentire come uno che vive in un albergo, come uno che non ha da rendere conto alla città della sua presenza mentre quando vivevo a Napoli la città mi faceva continuamente domande e continuamente esigeva delle risposte e quindi Roma ha costituito un po’ come una liberazione da quella pressione. A Roma mi sono sentito più libero e proprio grazie a questa condizione di libertà ho scritto di Napoli in modo spregiudicato.
Il tuo ‘valere al cinema’, per parafrasare Pavese, ha costituito l’esigenza di esplorare possibilità espressive altre dalla letteratura?
Direi che all’inizio fu solo un fatto lavorativo. Con la scrittura cinematografica si guadagnava bene. Io potei comprarmi un’automobile, superare una situazione familiare terribile perché all’improvviso vennero qui a Roma mio padre e mia madre che dovettero lasciare Napoli in una condizione improvvisa e nuova di bisogno. Insomma, in un momento difficile della mia vita, mi ritrovai a mantenere tre famiglie. Successivamente divenne una vera e propria passione. La scrittura cinematografica è, per le generali, un lavoro di équipe e il confronto con gli altri è stimolante.
«Leoni al sole» è liberamente tratto da «Ferito a morte» ma non regge il confronto.
Questa è una leggenda che voglio sfatare. Nel film del mio romanzo c’è solo una traccia. Anzi, Leoni al sole è proprio il contrario. Nel romanzo io volevo contrastare il conformismo che ritroviamo nel film. Nel film trovi il conformismo de I vitelloni, ta:nto per intenderci, mentre Ferito a morte vuol far vedere la miseria di questi ‘vitelloni’.
Come è stato il rapporto con Vittorio Caprioli?
Meraviglioso, Caprioli è stato uno dei miei amici più divertenti. Mentre scrivevamo la sceneggiatura ci divertivamo come pazzi e dicevo a me stesso: «Non solo mi sto divertendo come un pazzo ma mi pagano pure!»
Parlami di «Una stagione all’inferno» di Nelo Risi.
Come sai è un film su Rimbaud. Il film suscitò le ire dei francesi perché nei dialoghi mettemmo delle frasi più pertinenti al linguaggio dei figli dei fiori. Attribuivamo a Rimbaud dei modi di dire che erano prettamente sessantottini. Per esempio,che so, «è proibito proibire», quelle robe lì. Lo facemmo per ingenuità, non prevedemmo che si sarebbero incazzati. Ma c’è dell’altro. Ci era stata imposta dalla produzione Florinda Bolkan e allora dovemmo inventarci una vita africana di Rimbaud! Dove lei faceva la parte dell’abissina, ti puoi immaginare. Nonostante tutto il film aveva dei pregi. La scena della battaglia girata in Abissinia riuscì molto bene. Accadde poi un episodio curioso. Finita la scena vennero su di noi frotte di corvi ma non c’erano né morti né feriti. Così, quando Nelo diede lo stop, i corvi si incazzarono tra di loro perché non c’era niente da mangiare!
Che mi dici di «Identikit», l’unico film di Patroni Griffi al quale hai partecipato?
Fu un film molto difficile, dalla bellezza formale ineccepibile. Patroni Griffi era un decadente, aveva un gusto dell’immagine visconteo. Per l’accuratezza della forma lo potrei definire felliniano-antonioniano. Peppino era un passionale e ci buttò dentro tutta la sua passione ma ‘sta cosa gli prese un po’ la mano.
Che ricordi hai di Liz Taylor?
Fu molto disponibile ed era ancora molto bella. Mi ricordo che volli fare una foto a lei e a mia madre insieme. Sai, mia madre era una signora napoletana un po’ snob e io mi divertii a vedere la sua faccia quasi scocciata. Divertente fu come Peppino e la Taylor si intendessero pur non parlando l’inglese. Diventarono amici e lei non fece le bizze da diva di cui si favoleggiava, direi che fu estremamente umile e collaborativa.
Andy Warhol compare in una specie di cameo.
‘Ste cose le poteva fa’ solo Peppino, sai che Warhol non si faceva convincere da nessuno.
E adesso parliamo della collaborazione con Rosi. Parliamo de «Le mani sulla città».
Il soggetto ci venne in mente un giorno passeggiando per Napoli. Cominciammo allora a girare per la città come due reporter, ci intrufolavamo negli uffici comunali per consultare documenti, cartine della toponomastica, la lista dei terreni edificabili e no, proprio come fosse un’indagine poliziesca. Ti posso dire che è stato il film a dettare la sua legge, tante cose fino ad allora non le sapevamo. La città era soffocata da Lauro e dalla speculazione edilizia che voleva far diventare la Napoli della cartolina con il pino in una megalopoli sudamericana. Quando si corrompe l’urbanistica di una città si corrompe pure l’anima dei suoi abitanti. Il montaggio poi fu eccezionale. Te lo ricordi tu? La cartellonistica stradale, l’ambiente dei circoli nautici, quella orrenda bonomia borghese che comandava a Napoli…Napoli non era mai stata raccontata in questo modo.
E la scrittura del film?
Scrivemmo con altri sceneggiatori che sapevano più cose di urbanistica; Enzo Forcella figurava come consulente. C’era un certo Fermariello (Carlo Fermariello,consigliere comunale dell’opposizione,n.d.r) che interpretava se stesso, fantastico! E anche Rod Steiger, che sorpresa! aveva acquisito il modo di gesticolare dei napoletani, capì così bene la nostra cultura che sembrò essere uno di noi. Si immedesimò nelle abitudini del nostro popolo. Scrivevamo i cosiddetti ‘blocchi’. Ti faccio un esempio: «Consiglio comunale, riunione sull’edilizia». Beh, Franco andò proprio a vedere come si svolgeva una riunione del genere.
Un’altra volta mi hai detto che tu avevi la funzione, sul set, dello psicanalista. Mi spieghi?
Andava così. Quando eravamo nella fase della scrittura noi parlavamo moltissimo, quando lui non aveva ancora le idee molto chiare. C’era come una nebbia, allora io – proprio come uno psicoterapeuta – piano piano facevo venir fuori le cose che lui avrebbe voluto fare. In questo modo si creava la giusta armonia.
Rosi commissionò a De Mauro una relazione sul caso Mattei. De Mauro la redasse ma si appassionò talmente al caso che andò oltre. Rosi non ebbe mai quella relazione e,forse, per la sua vita fu un bene. Te ne parlò?
Certo che me ne parlò, ma lui stesso non riusciva ad andare al di là del mistero della cosa. La cosa strana è che tutti i film di Rosi sono incentrati su dei fatti di cui non si è mai venuti a capo. Per cui i film di Rosi rappresentano una situazione italiana di disagio che è ancora più importante della storia in sé.
Com’era Rosi sul set?
Era meraviglioso, un padre. Era calmo e preciso e aveva un occhio di riguardo per tutti ma soprattutto per gli ultimi,per la manovalanza. E questo lo faceva molto amare. Poi era pignolo in modo quasi maniacale. Questa cosa gli derivava da Visconti di cui, come sai, era stato aiuto insieme a Zeffirelli (La terra trema,n.d.r.), la precisione nei dettagli intendo. Un bicchiere sulla tavola doveva essere messo in una certa maniera, doveva essere dell’epoca di riferimento e via dicendo. Mentre in Luchino tutto questo era un po’ estetizzante, in Franco era soltanto puntuale precisione.
E invece com’era nella quotidianità?
Noi lo chiamavamo ‘il Professore’ perché era una persona di saldi principi, fermo, onesto. Pure quando Franco ordinava un caffè al bar lo faceva con autorità, ed era abbastanza divertente data l’occasione. Era una persona di una onestà incredibile e di una moralità che qualche volta, io glielo dicevo apertamente, quasi mi disgustava. Rasentava quasi una sorta di ‘conformismo della morale’. Io ero, come dire, più ‘indisciplinato’ riguardo alle leggi etiche. Noi ci prendevamo benevolmente sull’argomento. Io glielo dicevo: io sbaglio ma qualche volta è meglio sbagliare. Polemichette tra amici.
Ma lui era divertente come persona?
Lo era ma fino a un certo punto, non aveva una grossa propensione alla celia. Era una persona molto seria, non era un uomo molto allegro. A volte, se lo chiamavi ‘Professore’ a lui piaceva, se ne sentiva compreso.
Mi parli di «Diario napoletano»?
Diario napoletano fu concepito come un vero e proprio documentario. Fu girato 30 anni dopo esatti dopo Le mani sulla città. Tornammo a Napoli per fare il punto. Questa esigenza nacque soprattutto dallo sgomento che noi provammo nel vedere le meravigliose ville vesuviane del ‘700 sepolte in una periferia spaventosa di case popolari abusive che erano sorte intorno per gli abusi edilizi. E indagammo pure sulla situazione della città.
E che cosa scopriste?
Scoprimmo che quando 30 anni prima avevamo girato Le mani sulla città lo avevamo fatto con una speranza talmente forte – vinse il Leone d’Oro a Venezia, lo ricorderai- da far aprire gli occhi degli amministratori sui guasti che venivano provocati. Capimmo allora che il film non aveva smosso nulla.
C’è un episodio particolare della vostra amicizia?
Una volta abbiamo amato la stessa donna.
Immagino le scintille...
Eccome,ci furono degli scazzi tremendi.
Hai conosciuto Volonté, e se sì che rapporti hai avuto con lui?
L’ho conosciuto sul set e i nostri rapporti furono di consuetudine, non si può dire che fossimo grandi amici. A me l’idea del mondo che aveva Volonté non piaceva tanto. A me non piacciono i giovani risentiti, lui era sempre incazzato col mondo. Io sono un uomo pieno di dubbi, non ho certezze. Ma attenzione, il mio non è un giudizio di merito, sto parlando solo di differenze caratteriali.
Massimo De Luca (è il suo eteronimo in «Ferito a morte»,n.d.r.) sogna di tornare di tanto in tanto a Palazzo Donn’Anna?
Massimo pensa che, miticamente, c’è stato un tempo dell’armonia; il suo desiderio è di ritrovare un passato perduto che non c’è mai stato ma che ha sognato, un paradiso perduto che la città ha suggerito. È la ‘bella giornata’ cui alludo nel romanzo.
Ci torni qualche volta a vedere quel palazzo?
Eccome! È il palazzo dove nasce la mia fantasia. È un palazzo formato da due lati. Uno è la natura: se tu lo vedi da lontano sembra una roccia di tufo; l’altra è la storia, era il palazzo della vice-Regina di Napoli. Storia e natura. Io sono andato ad abitare in quel palazzo quando ero un ragazzo e si dicevano molte leggende, che fosse abitato dagli spiriti ad esempio. L’appartamento dove abitavo era a 6/7 metri dal livello del mare. Quando mi addormentavo la notte sentivo lo sciabordio dell’acqua, quando era cattivo tempo ti sembrava quasi di udire il palazzo ondeggiare per la furia delle onde, quando rientravo a casa la sera, al buio, avevo sempre paura di incontrare un fantasma nei corridoi. Quindi puoi immaginare bene come la fantasia di un ragazzo può essere alimentata da queste cose. Palazzo Donn’Anna è per me l’essenza di Napoli e poi è stato il luogo dove ho trascorso i momenti più belli della mia vita, la goduria di mangiare in terrazza i gamberi fritti che si cucinavano in casa mia con un panorama davanti che ti lascio immaginare.
Ti posso capire, io ho vissuto per brevi periodi a Capri,in Casa Malaparte.
La conosco bene, ci andavo spesso a trovare Curzio soprattutto quando faceva capolino Moravia. La casa era di una modernità ‘preistorica’, sembrava un’ara del sacrificio con quella scalinata che sembrava arrivare al cielo.
Che tipo era Malaparte?
Fisicamente mi ricordava uno dei saltimbanchi del periodo blu di Picasso, con quella sua bellezza impastata di malinconia. Era un uomo pieno di contraddizioni – fascismo e antifascismo, ad esempio – e Moravia e la Morante provavano una certa sufficienza nei suoi confronti, ma io penso che si possa collocare bene, a pieno diritto, in quella corrente rappresentativa degli anni ’30 che sfocia, nel suo caso, nello scritto Colpo di Stato.
Lo consideri importante come scrittore?
Per molti versi lo è, al netto di alcune considerazioni. Io ero incazzatissimo per quel suo espressionismo orribilistico che si trova ne La pelle; il suo sensazionalismo gli serviva per essere al centro dell’attenzione della serie adesso-vi-faccio-vedere-che-cosa-sono-capace-di-scrivere, l’episodio del pesce-sirena ne è l’esempio più lampante. Molti dei suoi dialoghi li trovo stupidi. Ma, intendiamoci, Kaputt è un bel romanzo.
Anni fa – vivevo in campagna allora – qualcuno gettò nel mio giardino un fagotto. Pensai a un sacchetto di immondizia, presto mi sincerai che si trattava di un cucciolo di cane. Lo tenni e lo chiamai Guappo. Così mi sarei ricordato di te e del tuo Guappo che non c’è più. È banale chiederti se ti manca Rosi, se ti manca Ghirelli, ma volevo chiederti se ti manca il tuo cane, Guappo appunto.
Guappo torna alla memoria come loro, né più né meno, il senso della mancanza, di vuoto sono identici. La cosa bella di un cane è che in lui c’è l’innocenza assoluta, la naturalezza. In un grande amico c’è l’intelligenza ma ogni intelligenza contiene delle ambiguità, il cane che ci accompagna per un periodo della nostra vita non è mai ambiguo.

 

BIOGRAFIA

Raffaele La Capria è nato nel ’22 a Napoli. Dopo la Laurea in Giurisprudenza approda a Roma dove lavorerà per anni in RAI ai Servizi Culturali. Esordisce con “Un giorno d’impazienza”,pubblica poi nel ’61 “Ferito a morte” con il quale vincerà il Premio Strega.

Seguiranno, fra gli altri, “La neve del Vesuvio” testo sull’infanzia e sul processo evolutivo di un bambino, “La mosca nella bottiglia” sul senso comune in un mondo abitato da troppi concettualismi, “Lo stile dell’anatra”, “Capri non più Capri”.

Ma La Capria è anche sceneggiatore di vaglia. Molti i film che scrive:

-”Leoni al sole” di Vittorio Caprioli,1962;

-”Senza sapere niente di lei” di Luigi Comencini,1969;

-”Una stagione all’inferno” di Nelo Risi,1971;

-”Identikit” di Giuseppe Patroni Griffi,1974;

-”Gioco al massacro” di Damiano Damiani,1989;

-”Sabato,domenica,lunedì” di Lina Wertmüller,1990;

-”Una questione privata” di Alberto Negrin,1991;

-”Ferdinando e Carolina” di Lina Wertmüller,1999.

Particolarmente importante il sodalizio con Francesco Rosi, amico dell’adolescenza, che ha generato veri e propri capolavori:

-”Le mani sulla città”,1963;

-”C’era una volta”,1967;

-“Uomini contro”,1971;

-”Cristo si è fermato ad Eboli”,1978;

-”Diario napoletano”,1993.

E’ da anni collaboratore del CORRIERE della Sera e condirettore di NUOVI ARGOMENTI, la rivista letteraria fondata da Moravia e Pasolini.

Tutte le sue opere sono state raccolte in un MERIDIANO Mondadori in due volumi, già alla seconda edizione.

E’ sposato con l’attrice Ilaria Occhini