Una pizza a casa Epifani domenica sera, per ammazzare l’ansia del referendum, poi la valanga di No. L’attesa che le prime proiezioni cambiassero tutto. E invece no, è andata malissimo per il Pd, ma bene per la sinistra bersaniana, ridotta a una quarantina di parlamentari pronti a «pesare» nel caso di «precipitazione» verso il voto anticipato. La minoranza Pd ha festeggiato – chi con D’Alema, chi con qualche «compagno di Sinistra italiana» – il fatto «di essere stati nel giusto», come dice Roberto Speranza. Un elettore su quattro ha votato No. Ieri si sono visti alla camera. Domani alle tre c’è la direzione: «Non andremo con gli appunti scritti», spiega Nico Stumpo, «e non chiediamo le dimissioni del segretario. Sentiamo cosa propone. Ma basta pagliacciate, dibattiti finti e documenti finali precompilati. Dovremo analizzare la sconfitta».

La parola «sconfitta» è parecchio peggio della «non vittoria» per cui è stato messo in croce Bersani all’indomani delle politiche del 2013. La «grande scoppola» brucia al punto che nella notte di domenica a qualcuno dei suoi Renzi ha confidato la pazza idea di dimettersi anche dalla segreteria del Pd. Alla mezzanotte, davanti alle telecamere spianate a Palazzo Chigi, mentre recitava lo show televisivo delle dimissioni (che invece arriveranno poi), ci aveva già ripensato e aveva pronunciato quella frase. Non chiara, ma non casuale.

«È tempo di rimettersi in cammino». Al Nazareno nessuno crede all’ipotesi estrema. Anzi, dal cerchio stretto dei renziani arriva il segnale opposto.Un tweet di Luca Lotti, il più luogotenente di tutti: «Tutto è iniziato col 40 per cento nel 2012. Abbiamo vinto col 40 per cento nel 2014. Ripartiamo dal 40 per cento di ieri». Un po’ più gigione Andrea Marcucci, ma la linea è la stessa: «Come disse Bluto in Animal House: non finisce mica qui. Renzi ha confermato di avere la statura del leader», dunque ora tutti pronti a «ripartire con Renzi, dal 40 per cento dei Sì al referendum». Una percentuale che però è una somma di tante cose: i voti di Casini, di Alfano, del 20 per cento dei forzisti disobbedienti e di qualche grillino pro-riforma. Il partito di Renzi, voto più voto meno, o quello della nazione. La ripartenza da questa «accozzaglia» è la linea sussurrata oggi al segretario dal quotidiano Il Foglio. Lo stesso che ieri sussurrava a Veltroni la linea del «Pd partito liquido». Com’è finita è storia nota.

«Se è un bel risultato lo voglio vedere scritto dietro il tavolo della direzione, questo 40 per cento, come Renzi fece dopo le europee», è la sfida del senatore Miguel Gotor. «Fra quei sì, che sono figli di una logica referendaria e di un comportamento elettorale diverso dalle elezioni politiche, la quota Pd va alquanto ridotta. Come rilevano i dati dell’istituto Cattaneo». Fin qui Gotor. Ma c’è anche chi azzarda due conti: «Fra quei Sì del Pd ci sarà al massimo il 36 per cento». Nel pomeriggio anche Massimo D’Alema batte sul punto, da Cartabianca su Raitre: «Saggezza vorrebbe che si facesse una discussione seria, interna al Pd, e si cercasse un terreno di ricomposizione. Altrimenti, altro che ripartire dal 40, si ripartirebbe da una grande crisi». Quanto alle dimissioni da segretario, anche l’ex presidente non ci crede: «Se si dimettesse ora si dovrebbe fare il Congresso in un clima avvelenato».

Il congresso comunque verrà anticipato? La minoranza, che lo ha chiesto fino al 4 dicembre, ora sembra avere un po’ meno fretta. Il colpo di freno ha a che vedere con «le tante incombenze che deve affrontare il nuovo governo, non solo la legge elettorale», viene spiegato. Ma c’è anche la contrarietà netta al voto anticipato a cui punterebbe Renzi. Ieri Matteo Richetti lo ha ribadito a Ottoemezzo (La7): «Andremo dal presidente Mattarella a dare il nostro sostegno ad ogni soluzione che sceglierà ma tenendo ben presente che bisogna andare a elezioni il prima possibile. È evidente che non si può fare un quarto governo non eletto». Eppure Renzi sa che ogni volta che fa balenare l’ipotesi perde qualche devoto nei gruppi parlamentari. Formalmente la richiesta di congresso anticipato da parte della minoranza resta. Gotor: «Prima dei nomi c’è la distinzione dei ruoli fra segretario di partito e candidato premier. E la discussione sulla politica. In questi anni c’è stato un cambio di linea di fatto: dal centrosinistra al neocentrismo, con quella ipotesi suicida dello schieramento dei ’sistemici’ contro gli ’antisistema’». Che ai ballottaggi produce sfracelli. Pure ai referendum.

Il candidato dei bersaniani è Speranza. Stumpo non ha dubbi. Qualcun altro ancora sì. Perché, in caso di nuova corsa di Renzi alle primarie del Pd, la sua vittoria non è in discussione, neanche con le mani legate. Il punto sarebbe provare a capire che faranno tutti quelli che si stanno autonomizzando dal renzismo. Come i ministri Delrio e Franceschini.