Diventiamo un bambino sulla cui pelle brillano luminosi tatuaggi magici in The Last Guardian, l’ultima e terza opera di Fumito Ueda per Playstation 4 dopo Ico e Shadow of the Colossus, un videogioco che abbiamo atteso dieci anni, temendo talvolta che sarebbe restato una magnifica utopia. Siamo un bimbo che si risveglia dentro le aule di una prigione misteriosa, nient’altro che una porzione minima di una titanica, vuota città inaccessibile se non dal cielo. E saremmo soli, afflitti da una solitudine sconfinata e sconsolante, persi in un’abissale vastità così schiacciante e deprimente da farci perdere il senno con i suoi vuoti insondabili, se con noi non ci fosse la bestia. È incatenata vicino al bambino che controlliamo, una grande bestia maestosa le cui sembianze ricorderebbero quelle di un grifone se il suo muso non fosse canino e le sue ali atrofizzate da gravi e recenti ferite che hanno arso il nero piumaggio. Guardiamo la bestia con timore mentre essa esprime la sua sofferenza con versi spaventosi e notiamo le lance infilzate sul suo manto. Con fatica riusciamo ad estrarre le armi appuntite e dopo poco ci arrischiamo a trovare del cibo per nutrire il grande animale che decidiamo di chiamare Trico. Infine lo liberiamo dalle catene.
CAPOLAVORO SENZA TEMPO
Inizia così un viaggio lungo e tormentato, la cronaca di un’ascesa verso una salvezza che sembra impossibile, come qualche hanno fa sembrava lo fosse l’esistenza stessa di The Last Guardian, un titolo che resterà inciso nella storia dei videogiochi per la sua abbagliante e straziante poesia malgrado sia penalizzato in parte da un comparto tecnico talvolta disturbante. Ma chiunque giochi The Last Guardian con il cuore non farà caso alle imprecisione della macchina da presa virtuale che fatica a seguire correttamente l’azione, agli intrusivi suggerimenti che nella fase iniziale nuocciono all’atmosfera e ai cali di frame-rate nei momenti più concitati. Perché ciò che conta è il viaggio e quello che intraprendiamo nell’opera di Fumito Ueda è uno dei più coinvolgenti che si possano compiere in una landa elettronica e senza alcun dubbio uno dei più belli, profondi e illuminanti, un videogame che trascende il medium di appartenenza così come i precedenti capolavori senza tempo dell’autore.
LA BESTIA
L’anima del gioco è il rapporto con Trico, sofisticato come nessun altro di quelli intrattenuti fino ad ora con un’intelligenza artificiale, così complesso che solo chi ha avuto o ha a che fare con un vero animale può comprenderne il realismo. Non c’è mai quasi nulla di meccanico nell’intrattenersi con questa grande bestia e le sue reazioni sono sovente imprevedibili, fino ad irritare il giocatore più frettoloso che si aspetta una risposta automatica. La pazienza è la chiave per il successo, così come l’empatia e l’affetto. Talvolta Trico fa l’opposto di quello che cerchiamo di fargli capire con i nostri gesti oppure ci ignora, ma mentre tetri ci struggiamo nell’incertezza ecco che la bestia improvvisamente decide di assecondarci. Proseguendo nel gioco, strutturato secondo una ritmica dapprima lentissima e progressivamente travolgente, il dialogo con Trico diviene sempre più efficace, il bambino e la bestia iniziano a condividere un linguaggio comune e le esitazioni si dissolvono nella rappresentazione di un amore esclusivo e tenero.
Attraverso segmenti di assoluta vertigine che fanno impallidire il ricordo dei baratri che si spalancano nelle avventure di Nathan Drake, valichiamo stretti, pericolanti passaggi sospesi in un nulla abissale, sopravviviamo a crolli apocalittici afferrati d’improvviso dalle fauci benigne di Trico, ascendiamo reggendoci alle sue piume mentre la creatura salta maestosamente da un pinnacolo all’altro e con l’amata bestia cadiamo verso l’inferno temendo di non poterci mai più sollevare dal quel disarmante niente.
FUORI DALLA MISCHIA
Non combattiamo mai, sebbene ci siano spettrali creature (e un’altra minaccia di cui è saggio tacere) che ci perseguitano, vuote armature animate dall’unica volontà di nuocere. Ci pensa Trico per noi ad eliminare le minacce mai troppo frequenti. Il vero nemico è questa metropoli disumana e abitata solo da una sconsolata amarezza, bellissima con le sue architetture impossibili e abbacinanti ma oscenamente disumana. Dovremo risolvere vari e complessi enigmi ambientali, la cui difficoltà è amplificata dal doversi affidare alla volontà di Trico. Ma impareremo dopo pochissimo a fidarci del grande animale che ci accompagna e nei momenti in cui veniamo dolorosamente divisi il sentimento di nostalgia verso il compagno è davvero doloroso. Sappiamo tuttavia che come noi stiamo languendo per Trico la bestia sta languendo per noi e ci cerca, nello stesso disperato modo.
Nella fase finale del gioco, completabile in 15 o 20 ore con la calma che la sua narrazione esige per essere apprezzata appieno, il crescendo delle emozioni è contrappuntato dall’accelerazione di una spettacolarità visionaria e titanica. In questi momenti così concitati e grandiosi nemmeno qualche evidente errore di programmazione ravvisabile nelle animazioni del bambino (ad esempio continua a muoversi come se corresse anche se ci fermiamo) riesce a minarne l’impatto visionario. Si tratta di imperfezioni che possono tuttavia turbare l’esperienza di chi guarda e percepisce The Last Guardian solo dal punto di vista della sua tecnologia, dell’esibizione di una forma rivelata dalla tecnica o del puro esercizio ludico, ma sono innegabili come l’improvvisa comparsa di un microfono nell’inquadratura del montaggio finale di un capolavoro del cinema. Il coinvolgimento a questo punto sarà così intenso che è tuttavia molto probabile che non ci facciate neppure caso, d’altronde lo sviluppo di The Last Guardian è stato ancora più tormentato di quello di Final Fantasy XV, l’altro gioco decennale che esce quasi in contemporanea con l’opera di Ueda e di cui parliamo nella pagina accanto.
GUARDIANI DEL GIOCO
Criticare con superficialità e con sdegno, senza affetto, questa opera d’arte vorrebbe dire affossare tutti i videogiochi, appiattirli in una forra dove non esistono differenze, penalizzare l’estro, la passione e il coraggio. Ha ragione per questo Francesco Fossetti quando scrive sul sito Everyeye.it che toccherà a noi trasformarci nei guardiani del gioco, «proteggerlo, e dargli spazio, e salvaguardarlo, ricambiando così quello che racconta e rappresenta: un profondo atto d’amore».
Dopo un finale devastante che non esclude il tenue bagliore di una speranza, permane in chi gioca una nostalgia immediata, vagamente tormentosa, e ci chiediamo se avremo ancora una volta l’occasione di vivere un’esperienza di tale portata. E la prossima volta che prenderete il controller di Playstation 4 in mano non sarà più come prima, soprattutto quando terrete premuto il tasto R1, quello che si usa per comunicare con Trico. Fumito Ueda è riuscito a farci innamorare persino di un tasto, a dargli un nome e un’anima.