Proviamo a spostare lo sguardo. Stacchiamoci per un attimo dall’inchiesta della procura di Napoli sulla morte della piccola Fortuna Loffredo e dall’omertà che avrebbe coperto le abitudini pedofile di Raimondo Caputo, accusato di aver violentato e ucciso la bambina nel 2014. Tutti si sono ovviamente indignati perché la pedofilia è un fenomeno che lascia atterriti e letteralmente senza parola, nel senso che si fatica a trovare aggettivi o paragoni adeguati a descrivere quel che si prova, si fatica a capire. Non voglio parlare della pedofilia, tema troppo complesso e articolato da svolgere in poche righe, ma della straordinaria sproporzione fra la tempesta emotiva scatenata dall’evento di cronaca e l’assuefazione collettiva verso l’uso quotidiano che si fa dell’immagine dei bambini.

 

 

Proviamo a guardare come i bambini sono usati ogni giorno dalla televisione e nella pubblicità. Dai junior masterchef alle competizioni canore, dalle foto alle sfilate di moda è abbondante e variegata la folla di piccoli corpi e visi. Accendi la tivù, sfogli un giornale, giri per strada, navighi sul web e neanche più fai caso a quanti sono i bambini usati per vendere prodotti o audience. D’accordo, se devi attirare l’attenzione sulle proprietà di un pannolino o incrementare il fatturato della tua azienda di abbigliamento infantile, mica puoi utilizzare dei diciottenni. Però con la scusa che c’è la liberatoria del genitore, spesso si perde il senso del limite.

 

 

Bambine in pose maliziose che scimmiottano atteggiamenti adulti, volti truccati per sottolineare purezza e innocenza, nuvole di capelli arruffati che scatenano tenerezza, riprese che valorizzano la simpatica naivité di uno sguardo o di un’espressione, la buffonaggine, la sfrontatezza, la timidezza spiate da una telecamera, il mondo dell’infanzia viene ogni giorno saccheggiato pur di attirare l’attenzione su una scarpa o aumentare lo share di un programma. E chi decide e organizza tutto ciò? Mica i pargoli, ma gli adulti che nello specifico sono genitori, pubblicitari, direttori marketing, autori, conduttori, registi, proprietari di marchi, giornalisti e via dicendo.

 

 

La sempre attuale genialità di un film come Little Miss Sunshine sta proprio nel saper mostrare come i mostri di quelle tremende competizioni di bellezza ideate negli Usa non sono i minorenni, ma le loro famiglie e gli organizzatori degli eventi. Le prime scaricano sugli eredi i loro sogni, le frustrazioni, le ansie di una vita diversa da quello che si sarebbe voluto o che non è più. I secondi annusano e sfruttano queste debolezze per costruirsi un’impresa e quindi un fatturato.

 

 

Nella sua tesi di laurea in semiotica «Bambini in pubblicità», discussa presso la facoltà di filosofia dell’Università di Bologna, Eva Schwienbacher analizza il fenomeno dividendo l’uso dei minori in: bambini come bambini (con i sotto modelli di Bambino attivo e Bravo bambino), bambini resi adulti (il Dandy, la Lolita/il Macho), bambini come nelle favole (Bambino fiabesco), bambini come adolescenti (Bambini in città). In ognuno di questi modelli l’infante non rappresenta se stesso, ma una proiezione dell’adulto, cosa che ci permette di parlare, senza paura di essere smentiti, di Bambini Oggetto, cioè utili a un fine altrui che può essere commerciale, sentimentale, consolatorio. Il fatto è che quando si trasforma una persona in un’immagine, si costruisce una forma di compravendita, di prostituzione. Tutto ciò passa ogni giorno sotto il nostro nastro e non a nostra insaputa, anzi con il tacito assenso, o indifferenza, di tanti adulti per bene.

 

mariangela.mianiti@gmail.com