A inizio mese qualcuno scriveva che giornalisti e analisti hanno commesso l’errore di descrivere il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, subentrato al “moderato” Moshe Yaalon, come un falco che avrebbe ulteriormente radicalizzato la politica del governo di destra guidato da Benyamin Netanyahu nei confronti dei palestinesi e del mondo arabo. Al contrario, aggiungeva, Lieberman si muove con pragmatismo e senso della misura. Invece non ha esagerato chi metteva in guardia dalla linea del pugno di ferro del nuovo ministro degli esteri. Le iniziative “politiche” annunciate ultimi giorni e il massiccio bombardamento di Gaza avvenuto domenica scorsa, confermano che Lieberman vuole lasciare il segno.

Al lancio, domenica, di un razzo da Gaza verso la vicina cittadina israeliana di Sderot, dove è caduto in una zona residenziale senza però causare vittime o danni, l’aviazione e l’artiglieria di Israele hanno reagito in due fasi. La prima, relativamente leggera, ha visto nel pomeriggio i cacciabombardieri e i cannoni dei tank prendere di mira per alcuni minuti postazioni del movimento islamico Hamas nei pressi di Beit Hanoun, la zona da dove un gruppo salafita (o l’ala militare del Fronte popolare, secondo altre fonti) ha lanciato uno o più razzi (soltanto uno è però caduto in territorio israeliano). La seconda è cominciata quando è scesa l’oscurità, ed è stata l’attacco militare israeliano più ampio contro Gaza dalla fine dell’offensiva “Margine Protettivo” nell’agosto del 2014 che uccise 2.300 palestinesi. Cacciabombardieri e artiglieria per due ore hanno martellato una cinquantina di obiettivi, a nord e a sud della Striscia. I feriti sono stati cinque, uno dei quali, un giovane di 20 anni, è in condizioni serie.

Dietro l’attacco c’è una evidente decisione politica. Israele negli ultimi due anni ha risposto ai lanci sporadici di razzi da Gaza – l’ultimo prima di quello di due giorni fa risale al 1 luglio – con brevi incursioni aeree. Questa volta invece la reazione è andata oltre ogni previsione, facendo ripiombare la Striscia nel clima di paura e guerra di due anni fa. È stata «sproporzionata» ha protestato ieri la Turchia che da poco ha firmato un accordo di riconciliazione con Israele. Tel Aviv ha replicato intimando a Ankara di misurare le parole. Qualcuno ha parlato anche di una risposta alla parata tenuta domenica pomeriggio dall’ala militare di Hamas durante la quale le “Brigate Ezzedin al Qassam” hanno esposto razzi, mitragliatrici pesanti e altre armi in suo possesso per commemorare l’uccisione, due anni fa, di tre comandanti militari dell’organizzazione.

Comunque sia, abbiamo visto in azione, scriveva ieri Judah Ari Gross su The Times of Israel, un aspetto della strategia del “bastone e della carota” che Lieberman ha illustrato alla stampa una settimana fa, per spiegare la sua politica che vuole distinguere tra palestinesi “buoni” e “cattivi.” Il ministro della difesa vuole punire collettivamente i villaggi cisgiordani dai quali partono palestinesi che compiono attacchi e “azioni ostili” e ad offrire invece benefici economici e progetti di infrastrutture civili a quelli che rimarranno “tranquilli”. Lo stesso vale per Gaza anche se la strategia “del bastone e della carota” non lo dice esplicitamente: attacchi militari massicci, come domenica scorsa, in risposta a lanci di razzi; tranquillità in cambio di tranquillità, senza però revocare l’assedio della Striscia. Il ministro ha anche annunciato che avvierà contatti “alternativi” con i palestinesi. In sostanza Lieberman vuole aggirare l’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen e stabilire contatti con rappresentanti locali.

Non è una politica nuova. Ha già un nome: “I Consigli dei villaggi”. La teorizzarono nel 1976 Menachem Milson e Yigal Carmon, responsabili per le attività civili dell’amministrazione militare nella zona di Hebron, e fu applicata dalla scomparso ministro della difesa (poi premier) Ariel Sharon negli anni Ottanta nel tentativo di frenare la crescente popolarità dell’Olp in Cisgiordania e a Gaza. Prevedeva la formazione di amministrazioni locali, non elette e gestite da palestinesi compiacenti verso l’occupazione. Lieberman pensa di ridare vita allo stesso modello sfruttando la debolezza di Abu Mazen ma la sua strategia “del bastone e della carota” è destinata a fallire così come naufragò quella imposta da Sharon. Nessuno crede che possa avere possibilità di successo considerando che la consapevolezza politica dei palestinesi è profondamente mutata rispetto a quaranta anni fa, soprattutto dopo la prima Intifada divampata nel 1987.

Non cambia invece la politica di colonizzazione dei Territori occupati. Per la prima volta in dieci anni, Israele pianifica di espandere gli insediamenti ebraici all’interno di Hebron su terre prima dichiarate di “uso militare” e ora destinate alle colonie.