Christian Boltanski ha passato qualche giorno a Bologna, una città a cui è profondamente legato. La mostra a Villa delle Rose nel 1997 (Pentimenti), il Museo per la Memoria di Ustica, sono i primi due esempi macroscopici che possiamo elencare. Il 21 aprile – giornata piena di appuntamenti – si è diviso tra una Lectio Magistralis nell’aula magna dell’Accademia di Belle Arti (dove a fatica si respirava, tanto la sala era gremita), il ri-allestimento di Les Regards, lavoro databile 1997, acquisito dal MAMbo l’anno successivo, per giungere infine al Museo per la Memoria, dove ha invitato tutti i cittadini a registrare i propri battiti cardiaci. Una copia della registrazione finirà nella collezione che Boltanski sta raccogliendo, su un’isola del Giappone, Teshima (il progetto è intitolato Les Archives du Coeur), un’altra copia viene lasciata a ogni visitatore, una terza resterà a Bologna, depositata negli archivi del MAMbo.

Boltanski osservava e, soprattutto, ascoltava i battiti cardiaci. Chi scrive – affetto da nota ipocondria – si è astenuto dal registrare il proprio battito. E se venisse a galla un’aritmia? Un soffio al cuore? Nondimeno, c’è una bellezza nascosta nel battito? In ogni battito?
Viene da chiedersi a che pro registrare battiti cardiaci. E viene da pensare che per Boltanski l’arte abbia davvero a che fare con qualcosa di «biologico», implichi una reazione simile in colui che guarda. È un aspetto su cui si era soffermato anni fa un artista inglese, trasferitosi poi negli Stati Uniti, Malcolm Morley.

In un’intervista rilasciata a Sarah Kent nel 1990, Morley caldeggiava una reazione biologica all’arte. «Come forma di critica, dovremmo misurare i batitti cardiaci dello spettatore, la sua respirazione, la sua traspirazione, ecc. La sensazione è pre-linguistica – esistiamo prima di avere un nome – esiste solo nel presente». E allora, forse, non è un caso che Boltanski abbia scelto di registrare quei battiti nello spazio monumentale del Museo per la Memoria di Ustica. Quale luogo migliore?
In attesa che ogni museo si doti di un Ecg holter cardiaco, procediamo. Qual è, ad esempio, la reazione che si prova di fronte a Les Regards, lavoro ri-esposto per l’occasione (e ancora visitabile) in una saletta al piano superiore del MAMbo? Viene da pensare ad un’altra presa di posizione di Morley, del 1983, piuttosto polemica – riferita questa volta all’idea di un’arte politica: «L’unico modo per cambiare le cose politicamente, sono i fucili. La pittura non può assolutamente fare questo. Quando guardate Goya, vedete magnifiche acqueforti. (…) Che lo vogliate o no, siete scossi da quelle opere, perché sono state fatte in modo da colpirvi visceralmente».

Che ci sia un fondo di verità? Perché sono i fucili che hanno cambiato le cose, durante la Seconda Guerra Mondiale, ed è per questo che a Bologna si festeggia la Liberazione della città: il 21 aprile del 1945. Ed è per questo che il 21 aprile 2015 eravamo lì, settant’anni dopo, penso ancora, mentre osservo gli sguardi anonimi sulle dieci stampe fotografiche ritagliate, gonfiate, ri-fotografate, esposte su poliestere, che un piccolo ventilatore al soffitto fa leggermente ondeggiare.

Di chi sono questi sguardi? A chi appartengono? Potrebbero appartenere a divi del cinema, tanto l’inquadratura è stretta, lo sguardo intenso. Invece appartengono a resistenti, agli oppositori politici fucilati contro il muro del palazzo del Comune, il sito dove oggi si trova il Sacrario dei caduti partigiani. Dal 21 aprile 1945, quel muro ha cominciato ad accogliere le foto dei caduti: foto tessera, vecchie foto ingiallite che nel tempo hanno subìto trasformazioni, attentati dolosi (oggi le foto sono in vetroceramica, custodite sotto una teca). Noi abbiamo testimonianza di quel momento preciso grazie alle foto di un pittore di guerra statunitense, Edward Reep, che in quei giorni del 1945 ha scattato a Bologna diverse fotografie, ora esposte presso l’Istituto Parri e nel cortile di palazzo d’Accursio (la mostra si intitola Framing Edward Reep. Un artista di guerra sulla via di Bologna 1944-45).

Boltanski, sembra anche inutile ricordarlo, parte da documenti. Ma se è vero ciò che scriveva Walter Benjamin e cioè che il montaggio, ogni montaggio, parte da un documento, ecco allora che il lavoro dell’artista, soprattutto quello fotografico, fa prendere ai materiali una strada diversa. Li complica. Ne complica la lettura con un’opera di spostamento, ma soprattutto di riduzione. È un gesto che, a pensarci bene, avvicina Boltanski al modo di procedere di uno scrittore come W. G. Sebald. Si pensi alle foto ingrandite e sfigurate in Austelitz, al lavoro di dettaglio fotografico in diversi suoi libri.

Anche qui, in Les Regards (c’è un precedente tedesco, datato 1993 – dedicato a resistenti tedeschi: le immagini, fotocopiate su carta, erano state incollate al muro del Haus der Kunst di Monaco), ogni foto appare modificata, come un paesaggio colloidale, una lezione di tenebre tra parti scure e chiare. Quante volte Boltanski avrà alterato la fonte? Con quale procedimento? Me lo chiedo davanti a questa parata di occhi, colpiti da strani aloni, macchie, graffi amplificati, strani prismi. Come se del reale fosse stato salvaguardato, ma differendolo, alterando il documento, stampandolo, moltiplicando le generazioni della fonte, spostandolo: un altro modo per preservarlo dall’oblio e dalla morte. Tentativo illusorio e destinato a fallire in partenza. Un magnifico fiasco annunciato, un po’ la condizione di possibilità dell’opera d’arte, dei suoi tentativi di esistere, una possibilità di bellezza destinata a svanire, a crollare nel tempo. Ma ciò che conta è proprio quell’impulso di partenza. La caducità, l’instabilità, la sparizione, non fanno che rendere giustizia al valore di quel gesto inaugurale, ciò che fa l’opera, ciò che lo spettatore, ognuno a modo suo, è in grado di sentire.

*Un ringraziamento particolare a Elena Pirazzoli