Lungo il muro che divide Betlemme da Gerusalemme gli shebab del campo profughi di Aida ingaggiano un’altra serata di scontri con i soldati israeliani. Undici feriti palestinesi, mentre a poca distanza il traffico di Betlemme prosegue la normale routine. È Ramadan: una passeggiata dopo la rottura del digiuno, mentre sotto la torretta militare i profughi manifestano solidarietà al popolo gazawi.

Le scene di guerriglia delle scorse settimane sembrano essersi eclissate, seppure ieri si siano tenute le manifestazioni del venerdì: 5 feriti a Nablus, 14 a Ramallah, 9 a Al-Janiya, 6 a Deir Abu Mashaal, 3 a Ni’lin. Resta calma Gerusalemme, nonostante la notizia del rilascio di tre dei sei sospettati dell’omicidio di Mohammed Abu Khdeir, perché «considerati estranei ai fatti»: restano dietro le sbarre due minorenni e un adulto.

Dall’altra parte, in territorio israeliano, ad interrompere lo scorrere della vita all’europea di Gerusalemme Ovest è il suono delle sirene, sempre più frequenti. I razzi lanciati da Gaza volano sopra Ashdod, Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa. Pochi quelli caduti: dopo la sirena, un rumore sordo e in cielo una fumata bianca. Il sistema difensivo israeliano Iron Dome – dall’eclatante costo di 95mila dollari per ogni missile intercettato – fa il suo dovere. I razzi, a Israele, costano parecchio, ma è un prezzo che sarà coperto con la vendita di armi e sistemi difensivi una volta che l’offensiva contro la cavia gazawi sarà terminata. Dopo l’operazione «Colonna di Difesa» del 2012, Israele incrementò del 20% le esportazioni di armi, 7 miliardi di dollari di introiti in un anno: la vendita di Iron Dome schizzò alle stelle.

Resta da capire se i missili – 550 in quattro giorni – possano rappresentare una minaccia per il settore turistico, soprattutto dopo la minaccia di ieri delle Brigate al Qassam, braccio armato di Hamas. In un comunicato inviato alle compagnie aeree mondiali, l’ala militare ha avvertito che prenderà di mira l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, «perché sede della base aerea militare 27». «Per questo – continua il comunicato – decliniamo ogni responsabilità legale e etica per danni a passeggeri o aerei da e per l’aeroporto». Ieri, secondo il portavoce dell’Autorità israeliana per gli aeroporti, le attività dello scalo sono state sospese per 10 minuti dopo l’allarme della sirena di emergenza, ma tutti i voli sono partiti e arrivati senza problemi.
I razzi cominciano ad arrivare anche a nord, dal Libano. Ieri un missile è caduto nella città di Metula, l’esercito israeliano ha risposto con 25 colpi di artiglieria. Secondo l’esercito libanese, tre missili sarebbero stati sparati alle 6 di mattina: i soldati hanno individuato il lanciarazzi e lo hanno distrutto. Nessuno ha per ora rivendicato l’azione.

E se dal paese dei Cedri c’è chi reagisce all’operazione israeliana, dal resto del mondo arabo arrivano condanne verbali. L’Organizzazione per la Cooperazione Islamica ha annunciato un’azione di lobby in sede Onu per giungere a un cessate il fuoco. Il Cairo prosegue, invece, nella linea di non intervento: ieri uno sconfitto Abbas ha fatto appello ai gazawi perché lascino le proprie case al confine con Israele. «Il negoziato con i contatti egiziani è fallito – ha detto il presidente dell’Anp – L’invasione via terra è questione di ore». «Il governo israeliano ha già approvato l’operazione terrestre, vuole cacciarci dalle nostre terre ma non ce ne andremo», ha detto Abbas aggiungendo di aver tentato di convincere Hamas a fermare il lancio di razzi, invano.
E se Il Cairo resta in silenzio, a parlare è Ankara: ieri il premier turco Erdogan ha minacciato Tel Aviv dell’eventuale interruzione dei rapporti diplomatici – ripresi dopo tre anni dall’attacco alla Mavi Marmara del 30 maggio 2010, in cui le forze militari israeliane uccisero nove attivisti turchi – se non cessa subito l’attacco contro la Striscia. La crisi diplomatica tra i due si interruppe con le scuse ufficiali israeliane e la concessione di un risarcimento alle famiglie delle vittime. A rendere più facile il riavvicinamento fu, però, il business: un accordo milionario per lo sfruttamento del bacino di gas naturale Leviatano, lungo le coste israeliane.

Allora a mediare fu il presidente Usa Obama, che oggi ci riprova. Ieri ha telefonato a Netanyahu offrendosi come negoziatore tra Tel Aviv e Hamas: «Gli Stati Uniti sono pronti a facilitare la cessazione delle ostilità e il ritorno all’accordo di tregua del novembre 2012». Nella telefonata tra la Casa Bianca e Tel Aviv, si è discusso anche di Iran e dell’accordo sul nucleare che dovrebbe essere concluso entro il 20 luglio prossimo.

Chissà che Netanyahu non ne approfitti: dopo aver accusato Tehran di aver prodotto e inviato nella Striscia i razzi che oggi vengono lanciati verso Israele, Bibi potrebbe accettare di interrompere l’offensiva contro Gaza catturando nella rete un pesce ben più grosso. Cessate il fuoco in cambio dell’abbandono del dialogo con la nuova Tehran del presidente Rowhani.