È da un’oscurità onirica e fiabesca che emerge la raccolta poetica di Francesca Matteoni Acquabuia, edita da Aragno per la collana i domani, a cura di Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno (pp.82, euro 8). La raccolta si apre all’insegna del buio, ma subito porta in luce uno scorcio onirico, una dimensione d’infanzia magica, suddividendosi in un prologo e cinque sezioni, o meglio in cinque passaggi che portano all’attraversamento di alcuni elementi magici: il Ragazzo Volpe, il sentiero di sassi e spine, il portatore d’acqua, Rosarossa e Acquabuia. Le note che l’autrice ha posto a fine libro ci aiutano nel trovare una chiave di lettura poetica e fiabesca insieme. La figura del Ragazzo Volpe apre la prima sezione con voce voce poetante: «Abitavamo nel bosco./ Percorrevamo vene di terriccio/ o su per ore umbratili/ le code spenzolanti, il legno azzurro».

Con il Ragazzo Volpe chi legge è portato a spostare lo sguardo intorno, nel bosco, dove si intravedono i segni d’una natura apparentemente in pace: una radura di castagni, l’ovale delle foglie, legna accatastata… eppure di pace non c’è traccia. L’erba tenera è tagliente. E insieme all’erba crescono inquietanti Odori, Altari. Alfabeti… Questo libro di Francesca Matteoni è un librobosco. Getta il lettore in un mondo antropomorfico, consegna qualità umane ad animali, piante, mostri e viceversa. Il secondo passaggio, titolato Il sentiero di sassi e di spine, ci conferma che siamo nel cuore del bosco e non sarà tanto facile uscirne. Questo passaggio si ispira vagamente ai sentieri di aghi e spilli presenti nella fiaba francese «La nonna», presunto antecedente orale della più nota Cappuccetto Rosso. Si respira la stessa atmosfera: il tragitto porterà diritto in bocca al lupo.

E gli esseri indifesi nulla possono fare per salvarsi, perché i cuccioli «non sono stelle, non capiscono quando tocca morire». Le strane forme di infanti che popolano Acquabuia di Francesca Matteoni «hanno inutili occhi socchiusi,/ ossa fredde, paccottiglia di madri/ sul dorso». Ci riportano con la mente alle antiche saghe nordiche, a fitte foreste popolate da troll, streghe, goblin, ci conducono in luoghi dove accadono cose spaventose, terribili: «Dentro i bambini si svuotano i mostri/prima del fischio, la muta in penne/ d’averla o di cuculo». L’averla è un uccelletto poco più grande d’un passero ma ha un becco adunco come un falco. Ha l’abitudine di infilzare le sue prede sulle spine dei rovi o su rametti appuntiti e corrisponde esattamente al nome scientifico che porta: Ianus, che vuol dire macellaio, dilaniatore. C’è qualcosa di stregato in questo uccelletto, c’è qualcosa di terribile nel bosco: ed ecco che nel fiabesco e crudele mondo di Francesca Matteoni, «i bambini s’infilzano/ nello spineto – / ogni mostro fa un uovo sanguigno…». Eppure c’è un fiore lì accanto, e c’è la fiaba. C’è Il portatore d’acqua. Ha un nome buono, salvifico. E cosa porta con sé? In nota l’autrice ci orienta e dà le coordinate per procedere con umana comprensione. Il portatore d’acqua porta con sé frammenti di mondo e, precisamente, «Frammenti geografici della provincia e città di Pistoia: la strada della Riola, il Comune della Sambuca Pistoiese, le Limentre e il paese di Torri, la vecchia ciminiera, i campi nei dintorni, le tre strade che s’immettono l’una nell’altra, formandone una sola, ellittica, dove sono cresciuta». Ma tutto cambia e si trasforma. Il portatore d’acqua è una figura del mutamento e passa accompagnato da una nuvola. Ridà i nomi alle cose, nomina il fiume, si fa fiume in se stesso, «scende nella valle tra i paesi»,mentre tutta la natura, anche quella umana, scorre e si interroga: «Da dove vengo io? Dove m’interro?».

Nella nota in quarta di copertina, Maria Grazia Calandrone indica il senso di questo mutare: «…non ingannino i nomi veri di animali e piante: qui è natura che trasfigura in bestia, creatura umana, fiore e sangue che scorrono, a fiotti e a fenomeno carsico, dall’indistinto. Tutta questa materia espone sempre e comunque il suo rovescio fiabesco, ectoplasmatico…» E sul finire, nel passaggio Rosarossa, Francesca Matteoni invia la sua accorata Lettera ai fiori: «fiori che non sapete, fin dentro/ le mie ossa tintinnate». Impossibile non pensare a Biancaneve e Rosarossa dei fratelli Grimm, c’è la stessa atmosfera crudele e soave insieme, c’è lo stesso magma. Qui, in un lampo, Matteoni inserisce la figura di un’onirica sorella («il corpo di tua madre è mia madre») e in quel lampo intravediamo una genealogia. Siamo in bilicotra fiaba e mondo.C’è un tipo con la barba. C’è il tavolo del falegname. C’è un orso. C’è un turbamento diffuso. C’è Acquabuia, così buia da dover distogliere lo sguardo. C’è una palude, c’è l’autobus numero 41. C’è una bruma infantile in un cui tutto raggela. Dice un verso: «Chiamami sempre sorella/ nel ciglio dell’erba».

Forse poesia sta in questa chiamata, inquietante come il verso di un uccello, come tutti i nostri spaventi. Nel buio da piccoli chiamavamo la madre solo per un’ombra, un fruscio, quel tonfo, quel rumore là fuori. La fiaba era bella e faceva paura.