Quelle grandi labbra rosse con cui Bertrand Lavier ha dato forma a un divano (dichiarata la citazione di Dalì) poggiato su un congelatore (l’opera si chiama La Bocca, 2005), è il primo indizio di un percorso costruito secondo la logica del lapsus. Le labbra, ridotte e ingabbiate, tornano in un’altra opera esposta a Punta della Dogana, precisamente in Sans titre (1975) che Tetsumi Kudo ha realizzato mescolando le sue impronte di mani, piedi, bocca e altri frammenti organici. Un’opera che traduce il paradosso insito nella sua fragilità apparente, che è all’opposto della durezza e della resistenza, che pure sono qualità che le appartengono.

Sorridente, poi, la bocca che ha il sigaro al posto di un dente dipinta da Lee Lozano sulla tavoletta di legno per il water (No Title (Toilet Lid), 1962-63). Questo lavoro e quello di Kudo appartengono, insieme ad altri cinquantanove alla collezione Pinault, quanto agli altri con cui è costruita la collettiva Slip of the Tongue (fino al 31 dicembre) – complessivamente sono centosettantacinque – provengono anche da collezioni internazionali e, per la prima volta, dalle istituzioni veneziane delle Gallerie dell’Accademia e Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini.

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Lee Lozano, No Title (toilet lid), c. 1962-1963 © The Estate of Lee Lozano

Altra novità per lo spazio espositivo del magnate francese è una curatela affidata, per l’occasione, oltre che a Caroline Bourgeois a Danh Vo (è nato nel 1975 in Vietnam, attualmente vive e lavora a Città del Messico), l’artista che rappresenterà la Danimarca alla 56/ma Biennale d’arte di Venezia. Il principio di casualità su cui si basa il linguaggio artistico di Vo è anche il meccanismo con cui è costruita questa non facile mostra, in cui le opere sono nate da violenze, dolori, disagi, inquietudini degli artisti nell’intercettare, vivere o subire la storia individuale e collettiva. Incontri inaspettati, pure per il pubblico, in cui il tentativo è di trovare un equilibrio nel ribaltare la negatività che ha generato l’opera nell’aspetto positivo e vitale della potenza creativa stessa.

«La grande domanda che si pone la mostra – spiega Caroline Bourgeois – è come si possano gestire queste ferite, come si possa vivere e creare con tutto questo peso di sofferenza e di storia». Tematiche che l’artista-curatore affronta «in una forma di intelligenza condivisa» (è sempre Bourgeois a parlare), chiamando a raccolta gli artisti che appartengono al suo mondo, mentori e amici. Tra loro, ci sono Nancy Baghramian (autrice dell’opera in gomma, resina, cemento e pittura che dà il titolo alla mostra), Julie Ault, Felix Gonzalez-Torres (di cui Danh Vo ha curato una retrospettiva al Wiels di Bruxelles nel 2010), Roni Horn, Petrit Halilaj, Charles Ray, Piero Manzoni, Marcel Broodthaers, Robert Manson, Paul Thek, ma soprattutto Nancy Spero di cui è presentata una parte consistente del suo Codex Artaud (1971-72). I fogli di carta ritagliati e incollati su carta giapponese formano rotoli irregolari, orizzontali e verticali, con pitture e testi dattiloscritti di Antonin Artaud, a cui è dedicata questa «visione periferica», come la definì la stessa Spero.

L’idea di frammento come lacerazione, che appartiene alla poetica di Nancy Spero, è una delle possibili chiavi di lettura della mostra. Martin Bethenod, direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana-Pinault Collection porta l’attenzione sulle miniature provenienti dalle pagine di graduali italiani medievali e rinascimentali – esposte in rassegna – sottolineando come il gesto brutale con cui sono state separate dal loro contesto originario di oggetti di culto, per diventare oggetti di collezionismo, quindi di mercato, ne definisca tuttavia un nuovo rapporto estetico.

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Nancy Spero, Les choses n’ont plus d’odeur…, 1970. Ph: Fabrice Gibert © The Nancy Spero and Leon Golub

Un tipo di operazione che avviene con le opere del passato, ma anche con quelle contemporanee. Si torna su concetti di mutilazione, violenza, decomposizione, nella dialettica di vita e morte: prendiamo ad esempio la serie fotografica di Peter Hujar che alterna immagini del 1963 della serie Palermo Catacombs e altre successive, in parte pubblicate nel libro Portraits in Life and Death. La naturalezza con cui l’autore sfiora con la sua Rolleiflex i corpi imbalsamati del Convento dei Cappuccini è la stessa che ritroviamo nei ritratti di cani o del modello di spalle. Una classicità controllata, eppure vibrante di pathos.
Procedendo tra opere molto diverse – a partire dal mascherone di Satiro della scuola di Tiziano, fino al bellissimo corpo senza testa di Rodin che raffigura una ballerina nuda con le gambe divaricate (Iris messagère des dieux, 1890-91) e passando per gli occhi di bambola che Carol Rama unisce alle perline e ad altri materiali mescolandoli con la pittura blu in Bricolage (1967) – capita anche d’imbattersi in una delle più controverse opere d’arte del Novecento: Piss Christ di Andres Serrano, rimossa dal website dell’Associated Press dalla stessa agenzia di stampa dopo l’attentato a Charlie Hebdo. Altri incidenti legati alla storia delineano il percorso di Slip of the Tongue: opere assemblate da Danh Vo secondo un approccio non sistematico, ma intuitivo. Rigoroso anche, se si considera che Vo ha trascorso un mese collocando le opere negli ambienti degli ex magazzini del sale, per poi spostarle fino alla piena convinzione del perfetto dialogo tra le installazioni stesse e lo spazio.

Anche come artista il modo di lavorare di Vo è di attesa dell’incontro significativo, come è evidente nell’opera 08:03, 28.05 (2009). L’imponente lampadario ottocentesco di cristallo che egli ha acquistato a un’asta, originariamente era collocato nella sala da ballo dell’Hotel Majestic di Parigi. Un testimone muto di eventi che hanno cambiato il corso della storia, come le trattative del 1973 per la pace in Vietnam. La grande storia s’interfaccia sempre con la piccola storia, quella delle persone comuni. Danh Vo non prescinde mai dalla sua storia personale: aveva quattro anni quando fuggì da Vietnam del Sud a bordo di una barca costruita dal padre che ospitava cento persone. La catastrofe fu schivata perché la barca venne intercettata da una nave che batteva bandiera danese che portò in salvo i migranti. Una guerra conosciuta indirettamente entra nella ricerca dell’artista, esattamente come i riferimenti alla sua famiglia (If you where to climb the Hilamalayas Tomorrow, 2007 o Oma totem, 2009) o a se stesso (Self-Portrait (Peter), 2005): sogni, desideri, aspettative.