Ieri al Cairo sono state confermate le condanne nel processo sul caso di spionaggio a favore del Qatar. Alla sbarra l’ex presidente Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, e altri 10 accusati, tra cui due giornalisti di al Jazeera e un reporter del network Rasd. Pena di morte confermata per sei dei co-imputati, mentre il presidente defenestrato dal golpe si prende altri 40 anni di carcere.

A monte sta il complesso castello di accuse fondato sui presunti rapporti del braccio egiziano della Fratellanza con paesi e gruppi stranieri, dai sunniti freristi di Hamas agli sciiti di Hezbollah. Secondo la corte, l’establishment di Morsi avrebbe trasferito documenti segreti su forze armate e polizia al Qatar sfruttando come complici-spie i due giornalisti di al Jazeera, Alaa Omar Mohammed e Ibrahim Mohammed Hilal. A rischiare la vita è il giornalista Asmaa al-Khateib di Rasd, agenzia considerata vicina ai Fratelli, perché l’unico nel paese. Mohammed e Hilal sono stati giudicati in contumacia. Ma la preoccupazione non scema: il timore è quello di un’estradizione.

Immediata è giunta la reazione di Hilal, ex direttore del canale arabo dell’emittente qatariota: «Mi hanno infastidito le dichiarazioni del giudice su come fosse certo che gli imputati siano traditori. Per me il vero tradimento è lo spreco di tempo e denaro in casi fabbricati. Guardate le prove: le sole che hanno sono le indagini segrete della polizia, mai rivelate, e confessioni estorte sotto tortura».

Ieri al Cairo avrebbe dovuto tenersi anche la prima udienza del processo contro i vertici del sindacato della stampa, impegnato da due mesi in un braccio di ferro con presidenza e Ministero degli Interni. Il presidente del sindacato Qalash, il segretario Abdelrahim e il vice segretario El-Balshy, sono accusati di aver dato rifugio a due fuggitivi (i giornalisti Badr e el-Sakka, poi arrestati da un raid senza precedenti della polizia) e aver fabbricato notizie false.

Tutto rimandato al 25 giugno: la corte si è aggiornata su appello della difesa che ha chiesto di chiamare Badr e el-Sakka a testimoniare. Nelle stesse ore il parlamento approvava un disegno di legge che dà ad al-Sisi il potere di nominare l’Alto Consiglio della Stampa, quello che sceglie i direttori dei giornali governativi. L’ennesimo strumento di controllo dei media.

Le accuse contro il sindacato sono ben spiegate dalle parole che Hilal di al Jazeera aveva usato per descrivere la sua condanna a morte: «È un caso politico. Vogliono minacciare tutti i giornalisti, fuori e dentro l’Egitto». Che simili sentenze abbiano scopi politici è ovvio: i processi a giornalisti, attivisti, membri e sostenitori dei Fratelli Musulmani si svolgono calpestando i standard minimi di una giustizia equa. Processi di massa, sentenze emesse in pochi minuti e spesso in segreto, ostacoli alla difesa, reati fabbricati dalla legislazione promossa da al-Sisi (tra cui messa al bando della Fratellanza e crimine di ‘protesta non autorizzata’): il potere esecutivo dirotta quello giudiziario.

Così l’aspra repressione che ha come principali target media e islamisti appare un mero mezzo di propaganda, la farsa di un nemico interno che giustifichi il pugno di ferro. Per questo si accumulano condanne a morte e ergastoli sulla testa dell’unico presidente democraticamente eletto in Egitto e rimosso dall’esercito che nel 2013 sfruttò con abilità lo scontento popolare per le politiche del suo governo. Si accumulano per fare del movimento frerista lo spauracchio, l’alternativa che l’Egitto non vorrebbe mai dover riaffrontare.

79 accademici per Cambridge
Sul fronte del caso Regeni a prendere l’iniziativa sono 79 accademici di università italiane e straniere: in una lettera firmata prendono le difese dell’ateneo di Cambridge, condannando «le accuse infondate e le asserzioni fatte da giornali» italiani in merito al presunto silenzio dei supervisori di Giulio di fronte alla Procura di Roma.

Secondo i firmatari, è «assurda l’idea secondo cui i docenti di Giulio sarebbero ‘dissidenti’, irresponsabili che lo mandarono a condurre una ricerca partecipata in un paese come l’Egitto» dove, aggiungono, «non era mai accaduto che uno studente, ricercatore o accademico straniero fosse assassinato prima che Giulio vi si recasse». Simili omicidi extragiudiziali avevano avuto come vittime giovani egiziani.

Campagne anche sul fronte italiano: i deputati di Possibile, con a capo Pippo Civati, hanno lanciato la petizione “Malek Adly libero” e scritto al ministro degli Esteri Gentiloni perché faccia pressioni per il rilascio del responsabile della Rete degli Avvocati dell’Egyptian Center for Economic and Social Rights, da oltre un mese in un carcere egiziano.