Dopo sette mesi dall’omicidio di Giulio Regeni, per la prima volta, l’Egitto ammette che la polizia indagò sul giovane ricercatore: il 7 gennaio (meno di 20 giorni prima della sua scomparsa), su esposto di Mohammed Abdallah, il responsabile del sindacato indipendente dei venditori ambulanti, personaggio già noto agli investigatori italiani, «la polizia ha eseguito accertamenti sulle attività dello stesso».

È quanto riporta il comunicato congiunto della Procura di Roma e della procura generale egiziana, a seguito della chiusura del terzo vertice tra il pm Pignatone e il procuratore Sadek: «All’esito delle verifiche durate tre giorni – si legge – non è stata riscontrata alcuna attività di interesse per la sicurezza nazionale e, quindi, sono cessati gli accertamenti».

Da quel momento, dunque, dice Il Cairo, i servizi egiziani non avrebbero più mostrato interesse per Regeni, dichiarazione utile a scansare dubbi di coinvolgimento nella sua morte. Che, però, non vengono affatto dissipati: la “firma” sul corpo martoriato di Giulio parla da sé.

Oltre all’attesa ammissione – Giulio era noto ai servizi – Sadek ha consegnato alla procura romana anche «l’ampia, completa e approfondita relazione sull’esame del traffico delle celle che coprono l’area delle zone della scomparsa e del ritrovamento del corpo di Regeni». L’esame, dunque, e non i tabulati: non sono stati portati, sebbene Pignatone abbia più volte insistito sulla necessità di consegnare il materiale grezzo e non rimestato.

Il comunicato aggiunge che sono in corso accertamenti sulle utenze presenti in entrambe le zone il 25 gennaio e il 3 febbraio. Su questo punto indiscrezioni, mai confermate ufficialmente, erano state pubblicate a fine luglio: i cellulari di cinque poliziotti sarebbero stati catturati dalle celle telefoniche dei luoghi di sparizione e ritrovamento del cadavere, il quartiere di Dokki al Cairo e la superstrada Il Cairo-Alessandria.

Infine, i famigerati video delle telecamere di sorveglianza, una saga infinita costellata di folli giustificazioni al rifiuto di consegnarli: violano la privacy e la costituzione, questo hanno ripetuto per mesi gli inquirenti egiziani. Ieri a Roma hanno detto altro: la mancata consegna è da imputare a «ostacoli tecnici che hanno impedito di completare l’accertamento». Ma si provvederà, dicono. Da parte sua, la Procura di Roma ha passato alla controparte i risultati delle analisi sul computer di Giulio.

Sadek ha provato a mostrare la faccia migliore del regime egiziano, ribadendo l’intenzione a collaborare per giungere all’agognata verità e ad incontrare i genitori di Giulio per esprimere loro vicinanza. Ma le dichiarazioni di buona volontà si mescolano alle solite gravi omissioni, sono la maschera del depistaggio: dei tabulati non c’è traccia, dei video neppure.

E tirare di nuovo in ballo la presunta banda di criminali “sgominata” a marzo e poi accusata dell’omicidio (altre cinque vittime del regime) è sintomo di uno stantio atteggiamento di difesa. Nonostante sia palese la loro estraneità alla vicenda come cristallino è il tentativo di insabbiamento da parte della polizia, che ficcò i documenti di Giulio nella casa del “capo-banda”, Sadek ha detto che le verifiche continuano anche se gli elementi a loro carico sono «deboli».

Così come – scriveva ieri La Stampa – la lista degli sms mandati da Giulio agli amici al Cairo non sarebbe completa, non combacerebbe con quella a disposizione degli inquirenti italiani. Un altro sintomo, se confermato, dei tentativi egiziani di modificare informazioni e prove. Se accade con i messaggi, può accadere con qualsiasi altro elemento utile alle indagini.

A monte sta la responsabilità politica del regime del generale golpista al-Sisi. Per quanto la procura di Roma si sforzi di dire che l’ultimo round è stato proficuo perché ha permesso di aggiungere piccoli tasselli al quadro generale, si procede con una lentezza esasperante e senza segnare punti decisivi.

Ammettere la colpa dell’omicidio Regeni significherebbe, per Il Cairo, scoperchiare il vaso di Pandora. Significherebbe riconoscere l’esistenza di una macchina della repressione che fa sparire ogni anno migliaia di egiziani, che li tortura sistematicamente e li uccide, che li incarcera senza processo sulla base di una legge anti-terrorismo da dittatura sudamericana.

Il Cairo non dirà mai la verità. Getta qualche boccone per evitare che il governo italiano si trovi costretto a rompere definitivamente, cosa che evidentemente non intende fare, vuoi per gli interessi politici ed economici che ha con il Cairo vuoi per la totale mancanza di sostegno dal resto dell’Unione Europea.