L’immagine degli uomini con l’indice alzato, gesto effettuato anche dallo stesso al Baghdadi, il Califfo, a ricordare il simbolo di al Tawhid, l’espressione politica del volere di dio, è diventato il marchio, il brand riconoscibile dello Stato islamico (che oggi abbraccia un’area più vasta del Regno unito, dalla sponda sud della Siria, fino all’Iraq, tratteggiando in pieno l’area tribale sunnita). Già la definizione caratterizza l’interpretazione che viene data al fenomeno. Non a caso, sulla stampa internazionale, una volta constatata la realtà, si è utilizzato «Stato islamico», anziché Isis, a segnare un confine tra un gruppo terroristico, per certi versi ormai un classico dell’area, e qualcosa di nuovo: una vera e propria istituzione statale.

Di Isis prima, di Stato islamico poi, si è discusso molto in Italia, anche se con colpevole ritardo rispetto al tempo durante il quale gli uomini di al Baghdadi hanno cominciato il loro lento e inesorabile progetto politico. Dopo un primo momento di confusione, è ben presto emersa tutta la peculiarità dello Stato islamico, rispetto ai gruppi «terroristici» conosciuti fino ad oggi. Questa prima considerazione deve tenere conto di alcuni fattori piuttosto rilevanti: le primavere arabe hanno cambiato completamente non solo l’area di riferimento, ma il mondo intero. Da quel momento è partito un ridisegno totale di quei confini stabiliti agli inizi del Novecento (gli accordi anglo francesi di spartizione dell’Impero ottomano nel 1916, noti come il trattato Sykes-Picot) e tutto è ritornato in gioco. La Siria è stato il punto di non ritorno, il luogo e le circostanze nelle quali si sono realizzati i peggiori errori delle potenze occidentali, e all’interno del quale l’Isis ha saputo sfruttare la situazione per dare vita al proprio sogno: la nascita di uno Stato islamico, a partire dalla culla siriana, capace di definire i nuovi confini del medio oriente.

Un business in crescita

La funzione del Califfato si trova così ad essere duplice: fare breccia nei sentimenti antioccidentali di tanti musulmani che vivono in Europa o in altri paesi occidentali e stroncare i regimi arabi considerati apostati e favorevoli all’Occidente (che in un’apparente contraddizione del mondo islamico, hanno finanziato proprio lo Stato islamico, come gruppo anti-Assad). È questa la principale novità dell’Isis: aver dato vita ad uno Stato capace di creare un sistema di tassazione, di impieghi pubblici, in grado di far girare soldi – che arrivano da più attività, non ultimo i rapimenti e i riscatti – potendo contare su un esercito composto da persone totalmente dedite alla causa. E su questo ha saputo innervare un utilizzo sapiente, professionale, dei contemporanei strumenti comunicativi di massa, a partire dal disinvolto e spregiudicato uso di Internet.

Di tutti questi elementi parlano due libri di recente pubblicazione. Il jihadista della porta accanto di Khaled Fouad Allam (Piemme, 15,90 euro) e Isis, lo Stato del terrore di Loretta Napoleoni (Feltrinelli, 13 euro). Si tratta di due opere particolari, che indagano in modo diverso il fenomeno del Califfato. Una visione più sociologica quella di Fouad Allam (il titolo del suo volume non rende giustizia ad un racconto molto meno mainstream di quanto si potrebbe supporre), più geopolitica quella di Napoleoni. Entrambi però insistono sulla particolarità e la novità rispetto a fenomeni precedenti, ad esempio al Qaeda, dell’Isis. Si tratta di due volumi – per altro – che appaiono preparati velocemente (ma non per questo sono raffazzonati, anzi) per rispondere alle domande su quanto sta accadendo in Medio oriente e che quindi, se hanno il pregio di fornire alcune risposte immediate, sono parziali e specifici, senza disegnare quadri complessivi di quanto avviene. Del resto la situazione è in divenire: le ultime notizie vedono in aumento il contingente americano e danno al Baghdadi, il Califfo, ferito gravemente durante un’incursione aerea della «Coalizione» in Iraq, mentre sono state diffuse le immagine della nuova esecuzione di Peter Kassig, ostaggio nelle mani dell’Isis.

La conquista della Siria

Secondo Napoleoni, «dal 2012 lo Stato Islamico è indipendente e non ha bisogno degli sponsor, il processo di privatizzazione del terrorismo è avvenuto molto rapidamente proprio grazie alla moderna guerra per procura che dal 2011 si combatte in Siria. Una rosa di sponsor, tra cui i sauditi, alleati fedeli degli americani, e naturalmente anche il Qatar e il Kuwait, hanno finanziato gruppi sunniti ribelli, tra cui anche milizie jihadiste, come il fronte al Nusra, una sorta di succursale di al Qaeda in Siria, e lo Stato Islamico in Iraq, poi ribattezzato Stato Islamico in Iraq e Siria (Isis) ed oggi conosciuto come Stato Islamico».

Per cosa muove i primi passi lo Stato islamico? Innanzitutto il rovesciamento del governo Assad in Siria, appoggiato invece dall’Iran e dalla Russia e in parte dalla Cina. Pechino, ad esempio, non ha inviato né armi, nè soldati, ma ha usato il suo peso politico nelle Nazioni unite per fermare, attraverso il veto nel consiglio di sicurezza, ogni azione militare o diplomatica contro il regime siriano. Un comportamento, quello cinese, che può essere visto anche come parziale rivincita dopo lo scempio libico, che ha costretto Pechino a rimpatriare migliaia di connazionali e perdere importanti contatti per quanto concerne il petrolio. «Agli americani, impossibilitati ad intervenire militarmente in Siria dal veto russo e cinese nel Consiglio di sicurezza, questa politica andava bene. Il moltiplicarsi dei gruppi sponsorizzati ha però frammentato l’opposizione e creato situazioni in cui costoro si combattevano tra di loro. Lo Stato Islamico ha sfruttato tutto ciò ed invece di combattere le milizie di Assad ha attaccato i più deboli gruppi jihadisti e ribelli, conquistando pezzo per pezzo il territorio che oggi controlla in Siria». Sapendo per altro, come confermato dai fatti, che Washington non avrebbe avuto il via libera a combatterli in Siria. Sulla base di questa situazione di partenza lo Stato islamico ha saputo conquistare territori, gestire efficacemente le proprie risorse finanziarie, creando una propria autonomia slegata dagli sponsor del passato. «Tagliare i finanziamenti dello Stato Islamico non è possibile perché ormai è uno Stato e l’economia fa parte di un territorio vasto controllato dalla stessa autorità».

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Interessante il riferimento a Israele compiuto da Loretta Napoleoni: «Il principale obiettivo dello Stato Islamico è rappresentare per i musulmani sunniti ciò che Israele è per gli ebrei: uno stato nella loro antica terra, rioccupata in tempi moderni; un potente stato religioso che li protegge dovunque essi si trovino». Il primo comunicato di al Baghdadi, nel quale definisce il Califfato come «la promessa di Allah», sembra solleticare i sentimenti profondi del mondo arabo. Fouad Allam sottolinea come proprio dopo la morte del Profeta, sul Califfato, sia avvenuta la spaccatura storica del mondo arabo, specificando come il tema sia sempre stato assai dibattuto dai teologi e dai giureconsulti dell’islam (gli ulema). Rimane il fatto che la capacità dello Stato islamico di creare quel senso di appartenenza perduto, compreso un richiamo ad un’età dell’oro del mondo musulmano, ha fatto breccia tanto nel mondo vicino al suo punto di partenza, quanto tra i musulmani distanti. Secondo Fouad Allam, però, il fenomeno di politicizzazione dell’islam fa sì che le nuove generazioni conoscano a memoria il Corano o gli hadith ma sappiano ben poco della letteratura e della filosofia araba.

Una diffusione virale

Il meccanismo del resto è noto da tempo: di fronte a crisi economiche e difficoltà di integrazione, le risposte «semplici» e «radicali» hanno consenso popolare. E lo Stato islamico, grazie a professionisti del settore (la rivista «Dabiq» è patinata non meno della celebre «Monocle»), è in grado gestire il meccanismo virale dei contemporanei strumenti di comunicazione (i social network). Allo stesso tempo ha saputo utilizzare i medesimi meccanismi comunicativi occidentali, ovvero quelle tecniche pubblicitarie che oggi costituiscono il «segreto» dei tanti «spin doctor» che ormai li attuano nel mondo politico – basti pensare, per non andare troppo lontano, al caso Renzi – per attirare l’attenzione mondiale e reclutare combattenti.

È questo il fine ultimo di una comunicazione che – come suggerisce Fouad Allam – non è improvvisata, ma arriva dopo anni di propaganda attraverso le videocassette, i dvd e infine la Rete svolta da gruppi islamici fondamentalisti che mai, però, avevano intrapreso un disegno così vasto come quello dello Stato islamico. Non a caso, l’intento del Califfato è storico: da un lato c’è il progetto, come specifica Napoleoni, di rifondare l’antico Califfato di Baghdad, entità distrutta dai mongoli nel 1621 (un territorio che andava dalla capitale irachena, fino all’odierno Israele) dall’altro c’è un intento totalmente politico. Pur nel rispetto rigoroso della loro tradizione, i sunniti del Califfato mirano a modernizzarne il concetto. «Nel suo primo discorso in veste di nuovo Califfo – scrive Napoleoni – al Baghdadi si è impegnato a restituire ai musulmani la dignità, la potenza i diritti e l’autorità di comando che possedevano nel glorioso passato e nel contempo ha rivolto un appello a medici, tecnici, giudici ed esperti di giurisprudenza islamica, affinché si unissero a lui».

Entrambi i volumi mettono dunque in evidenza alcune questioni prioritarie per comprendere il fenomeno: da un lato la crisi dei modelli occidentali di integrazione, che consegnano allo Stato islamico giovani desiderosi di affermarsi, attratti anche dal fascino della violenza sterminatrice del Califfato (secondo Napoleoni è in atto un vero e proprio genocidio contro gli sciiti per finalità politiche ed economiche), dall’altro mette in evidenza la rivoluzione in atto in quelle aree, dove la politica occidentale è apparsa in ritardo nel capire il riverbero di un mondo ormai multipolare. È saltato tutto, alleanze, accordi, storiche amicizie e inimicizie: nel mondo in cui gli Usa non hanno più la forza e l’autorità di un tempo, solo gli uomini del Califfato sembrano averne compreso il profondo significato storico.