Ancora una volta un attentato e una strage di civili in una città del mondo come Istanbul, piena di turisti in arrivo e in partenza dall’aeroporto internazionale. Stavolta però, se possibile, l’attacco terroristico non è eguale agli altri che si sono ripetuti in Turchia da otto mesi a questa parte. Ci troviamo di fronte infatti alla resa dei conti tra lo jihadismo dell’Isis impegnato nella destabilizzazione non riuscita della Siria e il Sultano protettore dell’impresa mancata, Recep Erdogan. Che ha avviato nel 2012 l’«autostrada della Jihad», sostenendo in armi e addestramento tutti i combattenti foreign fighters, in tanti arrivati anche dall’Europa nelle città turche dell’area al confine siriano, per addestrarli e istradarli al combattimento in Siria. Un comportamento da «santuario» dei jihadisti – che intanto occupavano metà Iraq e si insediavano in Libia – eguale a quello sostenuto dal Pakistan per i talebani in Afghanistan. Così smaccato e impunito che alla fine, il Sultano ha dovuto reprimere la stampa turca, in particolare quella indipendente, che ha avuto il coraggio di documentare e denunciare i legami profondi, economici, di traffici di petrolio e armi, da e con la Turchia, che soli hanno sostenuto in questi anni milizie e «Stato» del Califfo.

È in corso una resa dei conti, perché ora Erdogan, dopo avere destituito il «morbido» ed ex fedele premier Davutoglu, si è reso conto che in Siria l’operazione è fallita, e deve almeno ricotsruire le alleanze precedenti al conflitto. Con la Russia – dopo la crisi dell’abbattimento del Suchoi – e con Israele. Con Putin perché l’intervento militare russo ha cambiato le carte in tavola, con Netanyahu per tessere nuovamente una diplomazia insieme anti-araba e anti-Iran.

Ma nessuno vuole fare i conti con una verità estrema: le guerre innescate proprio quando sembrano finite e si annunciano trionfali vittorie e cogenti sconfitte, in realtà suggeriscono l’inizio di nuovi, più vasti conflitti armati.

E questo non solo perché il Califfato, vedendo il proprio arretramento sul campo in Iraq e Siria, colpisce per reazione subito, e per la prima volta, nell’area oltre i confini, sanguinosamente in Libano e Giordania come in questi giorni. E nemmeno perché, a ben vedere, queste ritirate non scalfiscono la «statualità da predicazione» propria dello Stato islamico che si vede proiettato sempre sull’area strategica-messianica che va dalla siriana Aleppo all’irachena Diyala e ora punta ad allargare la guerra a mezzo attentati fino a portarla anche dentro la Turchia. Ma soprattutto perché non sono risolti i problemi sollevati dalle guerre precedenti, quelle a responsabilità occidentale, che in Iraq, Libia e Siria, hanno distrutto tre Stati decisivi per la stabilità e gli equilibri politici e religiosi dell’intero Medio Oriente.

La guerra tra sunniti e sciiti infatti non accenna a spegnersi e vede uno stillicidio di attentati in Iraq che non fa più notizia; così come riprende il conflitto per il controllo delle fonti energetiche in Libia e Iraq. Resta cancellata la questione palestinese. E la questione kurda è esplosiva, con la lotta di liberazione dei kurdi turchi – invisa a quelli dell’Iraq che puntano alla secessione da Baghdad – che ogni giorno conta vittime e stragi di cui Erdogan porta la macchia indelebile: con i combattenti kurdi del Rojava bersagliati finora più e meglio dell’Isis, e le città kurde bombardate dai jet di Ankara con i sopravvissuti tra le macerie. Ecco le immagini che lo sguardo occidentale si ostina a non voler vedere. Mentre il parlamento turco in questi giorni – come da insegnamento per le guerre occidentali – ha approvato l’immunità per i suoi soldati impegnati nella lotta al Pkk.

Un’altra domanda è inevitabile. Ma c’entra la Brexit? La Brexit è un momento di profonda instabilità europea di cui il Califfo può certo rallegrarsi. Ma non è questo il punto. C’entra nel disastro mediorientale l’Unione europea, perché ogni Paese d’Europa insieme agli Stati uniti ha fatto parte della coalizione degli «Amici della Siria» che da quattro anni ha provato a destabilizzare la Siria, pensando di fare come aveva fatto, ma a guida francese, anche in Libia. Una responsabilità politica e militare quella europea con tanto di delega alla Turchia di Erdogan, perché ha il doppio ruolo autorevole e la doppia caratteristica di essere islamico e insieme atlantico in quanto baluardo sud della Nato. È stato quello della Turchia un lavoro sporco nell’organizzare le forze «ribelli». Tutte, senza distinzione, tanto che finanziamenti e armi occidentali sono arrivate indistintamente a combattenti qaedisti, a jihadisti e a moderati, come alla fine ha dovuto ammettere anche l’intelligence statunitense.

Ora la Turchia appare sola, nel fuoco della vendetta contro il suo voltafaccia all’Isis. Proprio mentre l’abbiamo coinvolta ad autodefinirsi «posto sicuro» per l’esternalizzazione dell’accoglienza dei migranti, quegli esseri umani che noi rifiutiamo. La desolazione e il disastro della Turchia corrispondono davvero alla desolazione e al disastro dell’Unione europea.