«Per dialogare servono anche le orecchie, non basta la bocca. E invece quando ci dicono che dobbiamo dialogare mi sembra più che altro che ci invitino a tacere» ha risposto il drammaturgo-attore Fausto Paravidino all’attore Umberto Orsini che nella conferenza di stagione all’Eliseo di Roma ha lanciato un appello al sindaco di Roma Ignazio Marino per trovare una soluzione al teatro Valle occupato il 14 giugno di tre anni fa.

Il botta e risposta significativo perché rivela la rottura politica e culturale che l’occupazione del teatro più antico di Roma ha creato anche nel mondo dello spettacolo. Orsini, infatti, non vede, o non è interessato, alla trasformazione materiale del Valle in una nuova istituzione dove la formazione delle maestranze e la creazione di drammaturgie contemporanee sono accompagnate dall’istituzione di un organo di autogoverno dove i lavoratori dello spettacolo cooperano insieme ai cittadini.

Orsini rivendica il «teatro di giro» che al Valle ha portato autori come Carlo Cecchi o Glauco Mauri. Paravidino parla del «contemporaneo», in particolare dei laboratori drammaturgici «rabbia» e «crisi» o della produzione dello spettacolo «Il macello di Giobbe» che presto vedrà la luce al Valle. Il primo vede solo la scena. Il secondo considera anche il retropalco. Non che le due strade siano inconciliabili, ma questa polemica dimostra come il Valle abbia prodotto un conflitto culturale di livello pari all’ambizione politico-giuridica della proposta di fondazione ispirata ai «beni comuni», la cui personalità giuridica non è stata tuttavia riconosciuta dal prefetto di Roma.

Fino ad oggi l’amministrazione comunale non è stata all’altezza di un’esperienza che ha messo consapevolmente in crisi la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico a favore della giurisprudenza dei beni comuni edegli usi civici. Le dimissioni da assessore alla cultura di Flavia Barca, che aveva avviato un percorso di ascolto finalizzato alla scrittura di una memoria di giunta, hanno vanificato un primo, timidissimo, tentativo di affrontare la questione.

Questo «dialogo tra sordi» è il primo tempo di un conflitto più ampio che può essere definito come una «lotta di classe». L’espressione è stata usata da Lidia Cirillo, autrice di Lotta di classe sul palcoscenico (Alegre, pp.125, euro 12) che contiene interviste alla rete dei lavoratori dello spettacolo che hanno occupato il Valle, Macao a Milano, L’Asilo Filangieri a Napoli e il Sale a Venezia.

Il concetto di «classe» serve a definire il contenuto della lotta degli artisti che, dopo gli intermittenti francesi, hanno scoperto la loro identità di lavoratori rivendicando il diritto al reddito, al welfare e alla formazione. E tuttavia non stiamo parlando di un raggruppamento lavorativo omogeneo come la classe operaia, ma di una costellazione di operosi attivisti non identificabili nell’esecuzione di una mansione esclusiva.

Al Valle, come negli altri teatri o atelier, ci si sente parte di una forza lavoro intermittente, nomade e precaria composta da milioni di persone. Ciò che differenzia queste esperienze dal «precariato» organizzato è la consapevolezza di possedere una molteplicità di identità professionali e culturali che si esprimono nel lavoro cognitivo e in quello materiale. Chi si riconosce in tale condizione dimostra una «coscienza di classe» e si distingue da chi si percepisce solo come «autore».

Questi comportamenti sono più diffusi di quanto si creda e hanno trovato nei teatri la possibilità di uscire allo scoperto definendo regole, reti e discorsi. Nelle interviste gli attivisti non si considerano avanguardie politiche o artistiche e non sentono di condurre una battaglia solo sindacale. Vogliono invece creare nuove istituzioni per rispondere ai bisogni di una composizione sociale che gli attivisti di Macao definiscono «quinto stato».

Questa «lotta di classe» non è dunque solo economica, ma anche culturale, politica e giuridica. Forte è la consapevolezza che si sta lottando per qualcosa che la nostra generazione non riuscirà forse a vedere. In compenso, precisano gli attivisti napoletani dell’Asilo, oggi è possibile sperimentare i primi risultati di una trasformazione di lungo periodo: «Noi andiamo oltre le macerie, scavalchiamo il solco che persiste tra politica e arte».