L’India delle contraddizioni, come si dice, questa volta sta mostrando al mondo una polarizzazione curiosa, considerando la consuetudine didascalica del paese della povertà sterminata opposta a un Pil «galoppante» sbandierato ai quattro venti dell’opinione pubblica come cartina al tornasole della «rinascita indiana».

Questa volta le due Indie a confronto sono quella ultranazionalista hindu, la base dei «falchi» del Bharatiya Janata Party (Bjp) al governo, e quella laica e progressista, rimasta orfana di riferimenti politici chiari dopo la debacle dell’Indian National Congress (Inc), che già – quando lo votava – votava non raramente a malincuore.

Slogan «anti nazionali»

La prima, rappresentata dalla parte più oltranzista del Bjp, dopo il suicidio dello studente dalit Rohith Vemula ad Hyderabad – su cui aleggia l’ombra della discriminazione castale – attraverso lo zelo del ministro degli interni Rajnath Singh (ex Rss) e l’obbedienza della polizia di New Delhi – unico corpo di polizia nazionale ad essere alle dipendenze dirette degli Interni – lo scorso 12 febbraio è tornata ad attaccare frontalmente la seconda, estendendo la propria azione all’interno del campus della Jawaharlal Nehru University (Jnu). Col benestare del rettore, in carica da appena due settimane, uomini in divisa e in borghese sono entrati nei dormitori dell’ateneo per arrestare Kanhaiya Kumar, leader del sindacato studentesco di Jnu (Jnusu). L’accusa: aver pronunciato, durante un evento di protesta all’interno del campus il 9 febbraio, slogan «anti nazionali». Un presunto crimine che, secondo il governo in carica, configura il reato di «sedizione», fino a 10 anni di carcere.

Tradotto in prigione in attesa di giudizio, in 13 giorni di detenzione Kumar, nel tragitto dal carcere al tribunale, è stato aggredito almeno due volte da un gruppo di avvocati vicini al Bjp, autoproclamatisi «patrioti» decisi a «dare una lezione» al giovane dissidente. Nelle risse, inizialmente derubricate a falle della sicurezza garantita dalla polizia fuori dall’aula, gli avvocati hanno colpito anche professori, studenti e giornalisti; tutti considerati elementi «anti nazionali».

Un’inchiesta del quotidiano India Today, nei giorni scorsi, ha portato alla luce un piano che va ben oltre la scazzottata imprevista di avvocati confusi dal metodo di applicazione della legge in una democrazia: davanti a videocamere nascoste, almeno due dei «patrioti» hanno confessato di aver pestato per tre ore lo studente dentro il tribunale, lontano dagli occhi della stampa ma davanti a quelli della polizia, inerme. «L’abbiamo picchiato fino a farlo pisciare sotto», ha dichiarato inconsapevolmente uno dei due avvocati.

In questo clima di giustizia fai da te, ed evidentemente senza vedere garantita la propria incolumità, Kumar ha visto respinte ben quattro richieste di libertà condizionata. La prossima udienza si terrà il 29 febbraio, al 17esimo giorno di detenzione per un presunto crimine che, secondo quanto si sa fino ad oggi, potrebbe non aver nemmeno commesso.

L’ipotesi iniziale di oltraggio all’onore nazionale era stata formulata dagli inquirenti in base a video della protesta del 9 febbraio ottenuti e trasmessi da diverse emittenti nazionali, tra cui Zee News e Times Now, in cui Kumar veniva ripreso mentre urlava «Pakistan zindabad!». Abbastanza, per la stampa di destra, per crocifiggerlo come sedizioso sull’altare della sacra Mother India.

Una settimana fa l’emittente Abp ha smentito lo story telling ultranazionalista, rivelando che il video mostrato fino a quel momento era stato contraffatto a bella posta, mettendo in bocca a Kumar parole che non aveva mai pronunciato. A confermare la versione di Abp, un video producer di Zee News si è dimesso, prendendo le distanze dall’operazione di propaganda del suo ex datore di lavoro.

Kumar non è però l’unico obiettivo nel mirino delle autorità di New Delhi. In seguito a indagini all’interno del campus di Jnu la polizia ha individuato i nomi di almeno dieci degli organizzatori della protesta del 9 febbraio: una commemorazione del terzo anniversario dall’impiccagione di stato di Afzal Guru, cittadino kashmiro considerato dalla legge indiana un terrorista, da parte dell’opinione pubblica kashmira e della sinistra indiana un martire.

Islamista? No, «ateo e comunista»

Tra i dieci studenti la stampa di destra ha battuto in particolare su Umar Khalid, di famiglia musulmana iscritto a Jnu, marchiato come giovane terrorista islamico in contatto con cellule islamiste in Pakistan, che avrebbe visitato in almeno due viaggi oltreconfine.

Dopo giorni di minacce di morte sui social network, la famiglia di Khalid ha rotto il silenzio con un’intervista del padre al quotidiano Indian Express. Umar, ha precisato il padre, è «ateo e comunista» e non è provvisto di passaporto: condizione che rende quantomeno improbabile la spola dello studente tra il campus di New Delhi e i covi del terrore in Pakistan.

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La protesta contro l’arresto di Kanhaiya Kumar, ieri a New Delhi (foto Reuters)

La notte di domenica 21 febbraio, dopo nove giorni passati da ricercato dalla polizia, Umar Khalid è riemerso di fronte agli scalini dell’Admin Block di Jnu – il cuore delle proteste pacifiche che dal 12 febbraio animano l’ateneo – pronunciando un discorso ai propri compagni. Nel video del discorso – virale e già oggetto di remix dubstep – Khalid rigetta le accuse di terrorismo, difende la sua fede politica e il diritto al dissenso, mettendo in guardia: «Quella di oggi non è solo la nostra battaglia, ma è la battaglia di tutte le università del paese. Non solo: è una battaglia per questa società. È una battaglia per il tipo di società che vogliamo per i giorni che verranno».

Mercoledì 24 febbraio Khalid, assieme a un altro studente indagato – Anriban Bhattacharya -, si è consegnato alla polizia della capitale, che per giorni ha atteso fuori dai cancelli di Jnu il permesso – mai arrivato – delle autorità universitarie per entrare e prendere in custodia i «sediziosi». Entrambi dovranno rispondere davanti ai giudici di «sedizione» e «cospirazione».

Dopo gli episodi – anche violenti – di intolleranza che negli ultimi due anni hanno preso di mira le minoranze religiose, etniche e castali del paese, oggi gli studenti indiani si trovano in prima linea contro l’avanzata dell’ultranazionalismo indiano. Mai così dilagante negli ultimi anni, e ora rinvigorito dall’inazione dell’esecutivo di Narendra Modi che a tratti pare addirittura sopraffatto dalle spinte estremiste che arrivano dalla base.

Gli studenti di Jnu, che assieme a gran parte del corpo docenti hanno organizzato dentro e fuori il campus manifestazioni pacifiche che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone, in due settimane hanno incassato la solidarietà del mondo accademico. Dall’Europa agli Stati Uniti, passando addirittura per il Pakistan, sono arrivate lettere e comunicati di adesione alla lotta per la libertà d’espressione in India.

Bufera mediatica e politica per Modi

Il governo Modi, al momento impegnato in una delicatissima sessione parlamentare «del budget», dove sarà presentata la legge di stabilità, è nel bel mezzo di una bufera mediatica e politica dal respiro internazionale. Editoriali preoccupati per la situazione dei diritti costituzionali in India sono comparsi su Guardian, New York Times, Le Monde e Dawn (Pakistan), senza contare le decine di denunce pubblicate sui principali quotidiani indiani, che non esitano a usare termini pesantissimi come «minaccia alla democrazia» e «fascismo». Accerchiato e storicamente restìo a esporsi su questioni spinose della politica nazionale, domenica 20 febbraio durante un comizio di fronte ai contadini dello stato dell’Orissa, Narendra Modi ha denunciato una «cospirazione» contro il suo governo orchestrata da «alcune persone» che non fanno altro che «attaccarlo» perché non si spiegano come un «venditore di té sia potuto diventare primo ministro del paese».

All’indomani della vittoria elettorale, ormai quasi due anni fa, Modi aveva annunciato che presto per l’India sarebbero arrivati «acche din» – «bei giorni», in hindi. Di certo non per la libertà d’espressione.