Il polverone della nuova inchiesta giudiziaria per corruzione sull’Eni continua a gonfiarsi, ma Renzi difende a spada tratta il «suo» nuovo amministratore delegato sotto indagine a Milano. In questa difesa emerge la situazione in cui versa il governo sul fronte energetico dopo che nell’ultimo anno la situazione in diversi paesi da cui provengono le risorse – e soprattutto il gas – di cui il nostro paese è assetato è diventata assai critica. Da sempre la politica energetica italiana è stata scritta da Eni ed Enel, una tradizione che sembra destinata a continuare con l’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Quando la situazione si complica, il governo si affida ancora di più al cane a sei zampe per trovare soluzioni in un mondo sempre ingolfato di conflitti e competizione tra vecchi e nuovi attori. Poco conta se nuove indagini giudiziarie gettano ombre oscure sui vertici di questa società.
La Nigeria è sempre stato un paese strategico per l’Eni, come per la Shell, nell’accedere al petrolio e, negli ultimi anni, al gas. Risorse estratte ad un costo ancora contenuto, ma ad un prezzo inestimabile per le comunità locali, il cui ambiente è devastato dagli sversamenti di petrolio, da emissioni tossiche derivanti dal terribile flaring del gas e dai conflitti etnici alimentati dalla corruzione e dalla militarizzazione che di norma accompagna l’industria estrattiva. Inoltre, il paese vive una situazione politica sempre più instabile, mentre la presenza dell’integralismo islamico si allarga, come testimoniano i recenti rapimenti di Boka Haram. L’Eni è presente anche in Angola, Mozambico (con nuove scoperte di ingenti giacimenti di gas) e in Egitto, altro paese dove la situazione è stato normalizzata dopo il violento ritorno al potere dei militari. Sempre nel Mediterraneo le cose vanno male in Libia, paese chiave per l’Italia, dove la guerra civile impedisce alla produzione di tornare a pieno regime. In Algeria gli scandali di corruzione di Saipem, del gruppo Eni, arrivati fino alla famiglia del presidente non aiutano.
Spostandosi ad est il contesto non migliore. L’Eni è l’unica società occidentale ad avere una partnership strategica con la Gazprom russa. Nonostante il governo Renzi sia riuscito ad imporsi in Europa con la nomina di Federica Mogherini ad Alto Rappresentante della politica estera dell’Unione – sebbene accusata di essere troppo morbida con le ingerenze di Putin in Ucraina per proteggere gli interessi energetici italiani – l’Ue vuole porsi in maniera sempre più dura contro il Cremlino. Così, il prossimo inverno le forniture di gas tramite l’Ucraina rischieranno di arrivare a singhiozzo in Europa e in Italia, poiché le vie alternative per importare gas dal centro Asia aggirando la Russia non sono pronte. Nello stesso contesto, per l’Eni esiste anche la grana del «South Stream», cioè il nuovo gasdotto che dovrebbe veicolare gas dalla Russia sotto il Mar Nero nei Balcani e da lì in Italia e in Europa occidentale. La rottura diplomatica con la Russia ha provocato lo stop alla costruzione di questo altro tubo proprio pochi mesi dopo che era stata posta la prima pietra insieme a Putin. Il governo cerca di lasciare aperto uno spiraglio alla cooperazione sul progetto, ma viene guardato a vista da Bruxelles dopo l’imposizione di nuove sanzioni contro la Russia, che coinvolgono quindi anche la Gazprom.
Il 20 settembre Renzi sarà a Baku per un ulteriore accordo politico che dovrebbe dare il via libera al gasdotto Tap che dall’Azerbaijan arriverebbe in Puglia passando per Georgia, Turchia, Grecia e Albania. Poco importa se bisogna stringere i legami con il dittatore Aliyev che negli ultimi mesi è stato autore di una stretta repressiva contro la società civile e le forze politiche indipendenti del paese. Verrebbe da chiedersi se questa è una vera alternativa all’autoritario Putin per assicurare le nostre risorse energetiche. Domanda lecita non solo in materia di diritti umani, ma anche per le effettive riserve disponibili nella parte azera del Mar Caspio. Il gas azero non è tanto ed è destinato a finire in tempi rapidi, motivo per cui l’Unione Europea da due anni sta cercando di negoziare un accordo tripartito con Baku e il Turkmenistan, sognando che il gas di questo altro paese – le cui riserve sembrano enormi – possa prima o poi fluire in Occidente con un gasdotto sotto il mar Caspio. Inoltre, la stessa strada che il Tap dovrebbe seguire è stata a lungo contesa, in particolare con il progetto alternativo del Nabucco West, che qualcuno vorrebbe sempre riproporre facendo girare il nuovo tubo nei balcani verso Nord, tagliando così fuori l’Italia.
Passando al petrolio sempre nella stessa regione, la performance dell’Eni non brilla neanche in Kazakistan, dove il progetto di trivellazione offshore di Kashagan incontra problemi tecnici enormi, con conseguente levitazione mostruosa dei costi. Non a caso l’Eni ha dovuto cedere il ruolo di operatore unico del progetto, ricevendo inoltre multe salate dal governo kazako. Ed anche in questo caso non mancano le indagini per presunta corruzione mosse dalla procura di Milano.
Al puzzle energetico andrebbe aggiunto anche il tanto agognato «shale» gas americano, che in molti si sbracciano per accoglierlo in Europa. Ma ci vorrà tempo per avere le prime esportazioni e non è detto che alla fine i quantitativi che gli «amici» americani daranno agli europei saranno così importanti. A questo va aggiunto lo scontro sulla costruzione definitiva del mercato interno europeo del gas, il cui sistema di definizione del prezzo influenzerà pesantemente le strategie di gestione delle riserve in Europa ed il prezzo della risorsa.
Nonostante l’ossessione di costruire nuove infrastrutture per l’import di risorse energetiche, e soprattutto del gas, rimane il problema di rendere sicure le forniture in un mondo sempre più conflittuale e incerto a un paese come l’Italia, dipendente completamente dall’estero in materia di energia. Il governo sceglie di affidarsi ai soliti noti, mostrando la sua debolezza e mancanza di coraggio nel cambiare, emancipandosi dai combustibili fossili.