In mezzo alle mille esegesi sul testo di Blackstar, una cosa diventa chiara come un sole nero: Bowie stava congedandosi da questo primo spicchio di terzo millennio e ci stava lasciando il suo canto del cigno, anzi del duca. Forse ora sta nella stessa casa di riposo iperspaziale dove già alberga Lennon, col quale interpretò Fame, e dove senza dubbio andrà anche Dylan. E magari da lì guarda sgomento il mondo che ha contribuito a confondere. La sua dipartita coincide infatti con un momento di sfarinamento dell’occidente, in cui la rinuncia della postmodernità a voler prendere posizione sul mondo gli si ritorce contro con terribilità biblica. Tanto che inizialmente i riferimenti che si volevano trovare in Blackstar erano all’Isis e ai suoi massacri premoderni.

Ma mentre Dylan e Lennon ci hanno dato il senso di una cultura pop-rock che ancora credeva nella capacità di dire e volere il cambiamento, soprattutto sociale, dell’esistente, salvo poi soccombere alla sua irrealizzabilità pur in maniere diverse, Bowie questa pretesa tanto più nobile quanto tragicamente fallimentare non l’ha mai avuta: nel suo giocare a rimpiattino con l’immagine e il senso, nella sua suprema arte dello scomparire e rinascere in guise sempre diverse, nel suo, insomma, essere sempre tutti e nessuno purché mai se stesso, sta il lascito di un prisma scintillante al quale il più pigro giornalismo musicale ha eternamente affibbiato lo straziante appellativo di «camaleontico». Tutta la sua carriera dimostra l’aver capito anzitempo i meccanismi della società dello spettacolo, del cui libretto d’uso e manutenzione ha scritto vari capitoli chiave.

 

 

Mentre la norma del rock and roll era quella – appunto, moderna – della fedeltà identitaria e del culto della giovinezza nonostante il tragicomico sfacelo che il tempo infligge a troppe rockstar sbiadite, la sua capacità, quando non di precorrere, almeno di sgambettare i tempi e le mode, è rimasta incontaminata fino alla fine. Al punto da rifrangersi nel suo aspetto recente, che ora sappiamo malato, ma che aveva acquisito il crisma dell’atemporalità. Il Bowie degli inizi è stato hippy, mod, chansonnier alla Brel: quando le subculture hanno cominciato a stargli strette, ha cominciato a riscriverle, dando spessore accademico al pop, mescolando i linguaggi e piegandoli alle proprie esigenze estetiche, spesso vendendo milioni di dischi. Ma sempre evitando rigorosamente di perdersi nella propria immagine. In questo senso, sta al pop un po’ come Blade Runner al cinema: due manuali del postmoderno.

«Lo credevo immortale» mi ha scritto un’amica a poche ore dalla notizia, facendo realizzare improvvisamente, a noi segnati nell’infanzia dal suo codice di segni impazziti, dalle sue riscritture sfacciate delle regole e dalla sua «extraterrestrialità», che un giorno ci saremmo dovuti confrontare con la sua morte fisica dopo aver imparato a convivere con le sue mille morti e risurrezioni artistiche. Extraterrestre e extratemporale, pur segnato dalla malattia e dall’età, il volto di Bowie non aveva infatti nulla di grottesco. Ed è ancora più terribile vederlo nel video di Blackstar, perché vi si legge il dramma del performer condannato, cui non resta altro che l’ultima esibizione con cui dare l’ultima impronta al millennio appena nato.

Per questo il dolore fisico al vedersi asportare una parte del nostro corpo psicologico passato e futuro è in parte compensato dalla gioia di vedere il polo musicale verso cui si è tesa la propria vita adolescenziale e adulta uscire di scena con un album profondo, interrogativo e commovente come Blackstar. La musica davvero grande non dà mai risposte, spesso sbagliate: pone sempre domande giuste. A noi, a dieci anni sulla copertina di Pin Ups e che, diciannovenni adoranti, riuscivamo a malapena a fargli una domanda durante un rarissimo showcase al Piper nel 1987, un solo cruccio rimane: non essere riusciti a fargli l’intervista della nostra vita.