Le case giapponesi hanno una loro condotta, un contegno. Non sono fredde né inerti giocattoloni: spesso «rubano» attitudini e pensieri dei loro proprietari. E, siccome nessun inquilino è immortale, rispondono a tutto ciò che gira intorno al concetto di mujo, ossia la poetica dell’effimero e dell’impermanenza, quella stessa che fa amare la fioritura dei ciliegi collettivamente e poi liberare tutti insieme la malinconia per quell’attimo fuggente e l’inevitabile appassire che richiama a sé. Le case, dunque, coltivano la loro bellezza, vengono disegnate da architetti per privati, custodiscono le abitudini di famiglia – sono introspettive o estroflesse rispecchiando le caratteristiche sociali di chi le fa costruire – e poi, una volta aver assolto al loro compito esistenziale, possono anche essere demolite. Quella che verrà dopo, racconterà un’altra storia, ricomincerà da zero.

The Japanese House. Architettura e vita dal 1945 a oggi, la mostra coprodotta dal Maxxi con la Japan Foundation, il Barbican Centre di Londra (dove poi emigrerà) e il Museum of Modern Art Tokyo, che aprirà al pubblico il 9 novembre, narrerà dal punto di vista spaziale proprio questo speciale «carattere» delle mura domestiche. E lo farà attraverso il lavoro di tre generazioni di progettisti (dal dopoguerra a oggi) che, con i loro disegni, hanno reinventato il paesaggio urbano partendo dal piccolo, dall’individuo committente, dalla visione privata e famigliare. Si va dalle case di archistar come Kenzo Tange, Toyo Ito, Kazuyo Sejima e Shigeru Ban fino a quelle di maestri meno noti in occidente come Seike Shirai, Kazuo Shinohara, Kazunari Sakamoto, o ancora, di un manipolo di giovani progettisti. L’allestimento, immaginato dall’Atelier Bow Wow, intreccia quattordici aree tematiche e ricostruisce in maniera spettacolare, rendendola percorribile al suo interno, la celebre casa White U di Toyo Ito (Nakano, 1976).

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Roof House di Katsuhisa Kida

Questo il «romanzo» narrato dalla mostra: se nei primi decenni del XX secolo, il paese asiatico guardava al modernismo europeo «corretto» alla luce della tradizione (Horigushi, per esempio, accordava sito e funzioni all’indigena struttura della casa per la cerimonia del té), nel dopoguerra la «musica architettonica» cambia ritmo e l’idea di «house» si giapponesizza ulteriormente – dimensioni ridottissime e piante piccole che comportano una rimodulazione degli ambienti, magari in verticale, con spazi e arredi liberi, spesso flessibili.

La spinta verso l’abitazione come bene-rifugio sarà enorme, basti pensare che fino agli anni Trenta, l’80% della popolazione di Tokyo viveva in affitto e non era consuetudine popolare avere una proprietà privata. Dopo aver vissuto sulla propria pelle una crisi degli alloggi a causa dell’inflazione, e aver ricevuto in seguito un sostegno governativo che favoriva l’edificazione di condomini, la modalità di vivere in città subisce un mutamento epocale: si tende a diventare piccoli proprietari e dal ’60 in poi – complice lo shock bellico e nucleare – si cercheranno altre strade per «stare al mondo», condividendo gli spazi sociali. Ogni nucleo famigliare parte alla ricerca di una «stanza tutta per sé». La casa indipendente abbandona la simmetria modernista e si trasforma in un organismo «sopravvissuto», adattatosi alla natura circostante, sia essa urbana o rurale. È il momento del Metabolismo, movimento architettonico che vede alla sua testa artisti visionari del calibro di Kenzo Tange.

 

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La rassegna al Maxxi di Roma comincia sfogliando un ideale album storico, che riassume una «memoria abitativa» in alcune fotografie di Ishimoto della Villa Imperiale di Katsura, nel video di Kogonada e nei film del maestro Ozu. Poi, si inoltra in una serie di esempi che – come in un mosaico – danno un volto alle nuove città. L’introduzione del cemento armato per le costruzioni è una vera rivoluzione: soppianta il più fagile legno, promette una resistenza notevole alle scosse dei terremoti e rimanda (quando lasciato grezzo) alla provvisorietà delle case post bombardamenti (ma, in fondo, anche a quella insita nella filosofia giapponese che riguarda la stagionalità della vita umana e, quindi, degli «oggetti» che utilizzano).

Nel percorso dell’esposizione, ci sarà la Row House in Sumiyoshi (Azuma House) di Tadao Ando, una piccola casa a due piani in getto di cemento realizzata nel 1976, che consiste in tre volumi rettangolari di uguali dimensioni: il cortile interno viene concepito come una parte integrale del sistema di circolazione dell’abitazione stessa.

Alcuni progettisti seguiranno la strada degli «archeologi del presente» (fra questi, anche i componenti dell’Atelier Bow Wow), indagando le forme vernacolari, le stratificazioni create dalle diverse generazioni che si sono susseguite, lasciando tracce del loro vissuto quotidiano.

Il rapporto con la città circostante si trasforma, a volte, in una relazione di odio-amore: può accadere, infatti, che le pareti domestiche entrino in dialogo con l’esterno, mentre altre si chiudano a riccio in un mondo perfettamente autocentrato che riflette la necessità del suo proprietario di tenersi a debita «distanza». Come dimostra anche la White U di Ito.

 

SCHEDA

Il centro di gravità spaziale della mostra, attorno al quale si dispongono le sezioni e gli altri materiali, è un volume di cemento circolare, ruvido e quasi senza aperture.

Si tratta della riproduzione nelle dimensioni reali di uno dei progetti più famosi di Toyo Ito, la casa «White U» costruita nel 1976 per la famiglia di sua sorella, subito dopo la morte del marito a seguito di una lunga e dolorosa malattia.

La committente e le sue figlie avevano chiesto a Ito di progettare una casa vicina al suolo e protetta, adatta a vivere e assorbire il lutto, dopo aver vissuto per molti anni in un piano alto di un condominio. Ito trova una sintonia ideale tra il sentimentocdi ostilità verso il caos urbano che caratterizza il suo lavoro (e quello parallelo di Kazunari Sakamoto) in quegli anni e il bisogno di pace e isolamento della famiglia della sorella. La casa, dopo alcuni esperimenti sulla forma a L, prende la forma «simbolica» di un ferro di cavallo chiuso, con la parte convessa rivolta alla città e quasi completamente chiusa e quella concava che si chiude intorno a un cortile in terra battuta, memore delle case tradizionali giapponesi.

L’altro elemento evidente, nato anche questo dal dialogo ravvicinatissimo con il committente, è lo spazio continuo della casa, un lungo ambiente centrale bianco e curvo, largo poco più di tre metri, che sfocia a entrambe le estremità in una stanza da letto, la madre da un lato e le due figlie dall’altro. Tutta l’interazione con l’esterno è limitata al patio, chiuso da un muro anche dal lato rettilineo. La storia successiva della casa è esemplare sia di ciò che questa mostra cerca di raccontare che della natura profonda dell’abitare giapponese. Dopo un certo numero di anni entrambe le figlie lasciano la casa e vanno a vivere per conto loro e anche la madre decide che il periodo di lutto è concluso, ed è quindi pronta per trasferirsi in un luogo diverso, con una forma diversa. Dopo vent’anni di vita, sei in meno rispetto alla media delle case di Tokyo, la White U viene demolita.