Una donna algida, dal volto perfetto e la pelle bianchissima, un marito accusato della sua scomparsa, una fuga solitaria che finisce in un motel di campagna, ciocche bionde che diventano scure con una bottiglia di tintura, la scena della doccia, un delitto sanguinoso a colpi di coltello, l’ostinato poliziotto di provincia…

Hitchcock è la presenza più ovvia (ma anche depistante) in Gone Girl, l’ultimo film di David Fincher in cui nessuno e niente sono quello che sembrano, tutti hanno qualcosa da nascondere e la temperatura frigorifera di un interno matrimoniale bergmaniano si colora di un’attrazione fatale da Duello al sole e di uno humor sovversivo che ricorda l’ultimo, bellissimo, film di Joe Dante, Burying the Ex.

Attraverso lo sguardo implacabile del regista di The Curious Case of Benjamin Bottom e Fight Club, la sua ossessiva passione per i rompicapo che non tornano, per giochi mortali da cui non si riesce uscire e in cui l’unica possibilità di sopravvivenza sta nell’alzare la posta, il romanzo thriller di Gillian Flynn perde la meccanicità della sua simmetria, certo stridore pseudofemminista e diventa una sontuosa, tossica, soap opera di Middle America, immersa in un bagno di neri e bruni desaturati fino al limite della claustrofobia (la fotografia è di Jordan Cronenweth) e avvolto in un sound elettronico ripetitivo, falsamente innocuo e rassicurante («pensavo alle musiche che si sentono in un centro benessere», ha detto Fincher a Trent Reznor, già con lui per la colonna sonora di The Social Network).

Falsamente casual, banale, è anche la premessa del film, che inizia la mattina del quinto anniversario del matrimonio di Nick e Amy Dunn. Lui (Ben Affleck) alto, bello, lo charme informale del Midwest condito però di ferrea ambizione. Lei (Rosamund Pike) newyorkese dorata, figlia di psichiatri che hanno vampirizzato la sua infanzia in una serie di best seller per ragazzi, che hanno fruttato ad Amy una miniera d’oro e un alter ego pesante. Sono una bella coppia, entrambi giornalisti (o quasi), e sembrano felici.

Fino a che la crisi economica e il cancro della mamma di lui riconfigurano la loro esistenza, dal condominio prebellico di Manhattan in una McMansion di New Carthage, in Missouri. Dalla redazione di una rivista patinata per uomini, Nick finisce a gestire svogliatamente un bar. Disoccupata e dopo aver dato fondo al conto in banca, Amy è ufficialmente una casalinga suburbana che si annoia.

«Il matrimonio è un lavoro duro», dice pensosamente Nick alla sorella gemella Margo. È appena passata l’ora della colazione ma sta già trangugiando uno scotch. Quando arriva a casa, poco dopo, Amy è scomparsa – il tavolino di cristallo in frantumi e un paio di sedie rovesciate in soggiorno. Il suo matrimonio sta per diventare un incubo.

Seguendo con parecchie licenze l’impianto del romanzo, Fincher scompone la narrazione in due affidando a Nick il punto di vista sulle indagini per ritrovare la moglie e ad Amy – attraverso le pagine di un diario – il quadro di un rapporto in stato avanzato di decomposizione. Intorno a loro, il carosello dei media, un coro greco, in un’atmosfera tra il rituale e il linciaggio collettivo che ricorda famosi episodi della cronaca tabloid, come il caso Scott Peterson (giovane, attraente californiano, condannato a morte nel 2005 per l’omicidio della moglie Laci, il cui cadavere è stato ritrovato in un lago dopo mesi di ricerche. Lui nega tutt’oggi di averla ammazzata).

David Fincher sul set
David Fincher sul set

 

«Il libro aveva cinquecento pagine, se ne sarebbero potuti trarre tre film… Quando però mi hanno mandato la prima stesura del copione, Gillian non aveva semplicemente potato il romanzo: aveva lasciato solo il tronco. Sono stato colpitissimo dalla forza della storia, da quello che era rimasto del libro», ha detto Fincher nell’incontro stampa che ha seguito la proiezione del film la serata inaugurale del New York Film Festival.

«Mi affascinava – ha continuato – l’idea di un’armatura narcisista, che è la visione di noi stessi che costruiamo e proiettiamo prima di tutto per noi, poi per i nostri genitori, i nostri insegnanti. È l’armatura che indossiamo per sedurre il nostro compagno. Cosa succede se, una volta firmato il contratto, uno dei due non vuole più essere quella persona? Non posso più essere la tua anima gemella… Mi interessava il risentimento che può generare un cambiamento così».

«Non avevo intenzione di rimanere devotamente fedele a tutti i meandri diabolici del romanzo ma ero decisa a rispettarne il tono, la dimensione dark. A non trasformarlo in un semplice poliziesco. Era importantissimo mantenere intatta la stranezza del rapporto di coppia», gli ha fatto eco Gillian Flynn. «Vedo Amy come una che conosce tutti i trucchi del mestiere. Che ha letto le storie, ha visto i telefilm per signore su Lifetime Tv» ha continuato la scrittrice. «Sa quali sono le armi a disposizione, le gamma di comportamenti femminili. E non ha paura di usarli. Può interpretare tutte quelle donne – da quella che ha bisogno di protezione alla più feroce. E al suo cuore non c’è nulla: è fatta di un insieme di storie accumulate negli anni».

«Amy ha un fragile senso di se stessa», interviene Rosamund Pike (che Fincher ha scritturato perché «mi piaceva la sua opacità, era indecifrabile»). «Ma ha un’ottima idea di quanti se stessa può interpretare. È stato molto divertente calarmi in un personaggio che poteva essere così tante donne: fragile, imbattibile, seducente, coinvolgente, repellente. Non so giudicarla ma la capisco. E sono sicura che non avrebbe potuto essere un uomo, perché il modo in cui funziona il suo cervello è completamente femminile. Ne sono convinta, e non mi importa se a molti non piace sentirlo dire. Quasi sempre, in un film, una donna forte dimostra le qualità di un uomo, o usa il suo potere sessuale per ottenere quello che desidera. Amy non è così. Il sesso come arma non le interessa».

Preoccupatissimo (nonostante i 7 milioni di copie del libro già vendute…) che si perda la sorpresa della trama, Fincher chiede al suo cast e ai giornalisti di non dire troppo. Rispettiamo il suo desiderio, aggiungendo che chi si aspetta un classico noir con dark lady diabolica rimarrà molto deluso: nel bene (come in Benjamin Button) e nel male (come qui) le trappole di questo grandissimo Escher del cinema statunitense funzionano rigorosamente a due. Il “cattivo” deve sempre avere un antagonista degno di lui. Anzi spesso è proprio “l’altro”, quel cattivo, che tira fuori il meglio di noi stessi – se no come avrebbe fatto Jodie Foster a uscire dalla Panic Room?

Applicare questa visione del mondo al matrimonio, al rapporto tra un uomo e una donna, ha lasciato sconcertati molti (nonostante le critiche del film siano molto positive), al punto che, racconta lo stesso regista, dopo la visione, il pubblico è invariabilmente diviso: dalla parte di Amy o dalla parte di Nick. «Ho scoperto che gli uomini e le donne hanno reazioni molto diverse nei confronti di Nick – dice anche Ben Affleck -. La maggior parte delle giornaliste mi chiede come ci si sente a interpretare uno stronzo. Gli uomini mi guardano annuendo… “come lo capisco”».
In realtà la provocazione di Fincher è molto più frontale: Gone Girl non fa discriminazioni, è un equal opportunity offender. E in questo sta la sua geniale, perversa, bellezza.