Dalle montagne del Kurdistan al cuore di Roma. Con questo spirito, oggi si mobilitano comitati e associazioni per sostenere il centro curdo Ararat, a Testaccio, a rischio di chiusura dopo 17 anni di attività. Oggi scade “l’ultimatum” di dieci giorni contenuto in una lettera del Comune di Roma che potrebbe cancellare lo storico luogo di riferimento per la comunità curda della diaspora.
La storia del centro Ararat è simile a quella di molti altri spazi occupati nella città, su cui pende la scure del commissario Tronca, che vorrebbe “normare” e mettere a profitto locali in cui agiscono realtà eccedenti: che non hanno prezzo, perché si basano su valori e scambi fuori mercato.
#RomaNonSi Vende, hanno gridato in piazza migliaia di donne e uomini lo scorso 19 marzo: per difendere l’alternativa che tante realtà – centri sociali, associazioni e presidi territoriali – hanno costruito dal basso in questi anni, in controtendenza con le politiche di privatizzazione di beni e servizi.
Ararat nasce nel maggio 1999 al Campo Boario, nel complesso in disuso dell’ex Mattatoio di Testaccio. Lì, uno stabile abbandonato è diventato uno spazio di accoglienza e di ospitalità, un luogo di cultura, solidarietà e trasformazione del territorio. Sul leggendario monte Ararat trovò scampo dal Diluvio universale l’arca di Noè, carica di tutte le specie. Ararat è il nome della prima nave giunta in Italia carica di profughi curdi. Ararat è soprattutto il monte simbolo dei curdi e degli armeni, oppressi e dispersi dalla repressione dei governi turchi.
A costruire lo spazio, negli anni, sono stati gli stessi profughi curdi che vi hanno trovato accoglienza, insieme a un gruppo di associazioni come Azad, Donne in Nero o Senza Confine. Un luogo-simbolo sintetizzato dal nome della piazza in cui si trova, dedicata a Dino Frisullo, militante internazionalista, difensore della causa curda.
Gli animatori del centro Ararat hanno pagato regolarmente l’affitto e, dal 2007, è aperta una trattativa col Comune. Cos’è successo allora? Una delibera del 30 aprile del 2015 decide di rivedere tutta la politica di gestione degli stabili. E si mettono in moto procedure amministrative che impongono agli spazi associativi condizioni impossibili o poco praticabili.
Spiega al manifesto l’avvocata Simonetta Crisci, che si occupa della vicenda insieme al collega Giuseppe Lo Mastro: “La lettera inviata ad Ararat contiene affermazioni contraddittorie come quella di fissare un lasso di 10 giorni quando il tempo è di solito di tre mesi, non c’è una motivazione chiara. Inoltre, in tutti questi anni, come associazione senza fini di lucro i cui iscritti sono in maggioranza richiedenti asilo (200 tessere solo per i primi mesi del 2016), Ararat ha espletato tutte le pratiche richieste dal Comune, che non ha mai risposto: ragion per cui vale per legge il silenzio-assenso. Noi abbiamo presentato ricorso per chiedere intanto una sospensione del provvedimento, e lunedì saremo ricevuti dal Prefetto”.
Intanto, piovono telegrammi di solidarietà da tutta Italia e in molti si ritroveranno oggi alle 6,30 per una colazione solidale nella casa che ha raccolto “il messaggio di rivoluzione e pace lasciato da Ocalan a Roma prima di essere consegnato alle autorità turche”. Un appuntamento di resistenza e dignità: per dire a Tronca – scrive l’associazione – “che Ararat non scade e non si consegna, ma che a scadere e a fallire saranno le loro politiche di svendita e di privatizzazione”.