Nelle teorie contemporanee lo spettatore cinematografico non è certo il grande assente, il convitato di pietra per il quale si è frettolosamente deciso di aggiungere un posto a tavola purché non parli. Anzi. Ma nessuno finora l’aveva messo al centro di una ricerca così complessa e stratificata come fanno Vittorio Gallese e Michele Guerra in Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, appena uscito nella bella collana di Giulio Giorello edita da Raffaello Cortina (pp. 320, euro 25,00). Se Gallese è un neuroscienziato tra gli scopritori dei neuroni specchio, Guerra è un teorico del cinema che, insieme ai classici italiani e americani da Bertolucci a Kubrick, si è occupato delle relazioni tra film e neuroscienze cognitive. Entrambi docenti all’Università di Parma, nelle lunghe discussioni da cui è nato il libro si sono contagiati a vicenda, moltiplicando gli scambi di idee e di dvd. Convinti che il dialogo tra le diverse prospettive di partenza – la prima impegnata a capire come funziona il sistema cervello-corpo e la seconda attenta agli aspetti fondamentali dell’esperienza filmica – non potesse cedere alla tentazione del grande esperimento che apparentemente risolve tutto, ma dovesse piuttosto orientare il lavoro di scrittura a quattro mani nel raffronto continuo tra le rispettive tradizioni di studio e metodologie di ricerca, chiamate a produrre una miscela, esplosiva almeno sul piano critico.

Sin dall’inizio gli autori si chiedono lucidamente: “Quali sono le forme della nostra relazione, del nostro ‘contatto’ con quelle immagini che ci sembrano così reali, che sono lì, a portata di mano, che si riferiscono così chiaramente alla nostra realtà e che pure sono capaci di trasportarci in una dimensione di pura virtualità?”. Certo, una domanda importante che riguarda il nostro rapporto con gli spazi in cui viviamo e con le persone e le cose che ci circondano, ma anche l’impatto con le immagini nella sala buia che ha agito sui sensi di milioni di spettatori per spostarsi oggi sugli schermi, sempre più grandi o sempre più minuscoli, di tv, tablet, smartphone, aerei e bus. Una domanda che apre tutta una serie di questioni vecchie e nuove che possono essere rivitalizzate dalle acquisizioni dei nuovi saperi cognitivi. Semplificando, imprudentemente semplificando, è in particolare l’ipotesi della simulazione incarnata che ci può permettere di addentrarci nei meccanismi dell’immedesimazione con quello che avviene sullo schermo, con quello che combina il protagonista. Si tratta di un nuovo modello di percezione per cui il mio sistema motorio si attiva come farebbe nel caso fossi io, e non un personaggio bidimensionale, a sperimentare le situazioni rappresentate nel film.

Lo schermo empatico, che scommette sul rapporto tra discipline in apparenza lontane, è un libro importante e originale, destinato a lasciare il segno e a far discutere. Anzitutto perché non esita a ripercorrere la mappa delle teorie sostituendo l’interrogativo “Che cos’è il cinema?” del geniale e inflazionato Andrè Bazin con “Perché andiamo al cinema?” del pionieristico ma sottovalutato Hugo Munsterberg di qualche decennio prima, riposizionando Victor Freeburg, Vachel Lindsay , Rudolf Arnheim, Siegfried Kracauer, Edgar Morin, via via, fino a Gilles Deleuze per il quale: “Il cervello, è lo schermo. Non credo che la linguistica, la psicoanalisi siano di grande aiuto al cinema. Piuttosto la biologia del cervello, la biologia molecolare”.

Sono gli esempi di analisi filmica che scongiurano ogni possibile accusa di riduzionismo confermando tutto il potenziale critico delle ipotesi di fondo, nel momento in cui animano alcune delle pagine più suggestive e illuminanti. Dalla sequenza delle chiavi di Notorious con Ingrid Bergman, la spia a sua volta spiata che deve sottrarre le chiavi senza che il marito se ne accorga, allo sdoppiamento del proiezionista di La palla n.13 in cui Buster Keaton si addormenta e il suo doppio se ne va in giro a fare il detective. Se è la Steadicam che consente al piccolo Danny di Shining di correre su e giù per i corridoi dell’Overlook Hotel sul suo triciclo, è l’ingannevole uso a sorpresa del montaggio continuo a marcare una delle scene più adrenaliniche di Il silenzio degli innocenti, quando si pensa, ma non è vero, di essere vicini alla cattura del serial killer. I volti di Liv Ullman e Bibi Anderson in Persona si dissolvono uno sull’altro nel segno della più inquietante reciprocità, mentre in Una donna sposata la tattile sinfonia di corpi, volti, gambe, piedi, mani che si accarezzano e si ritraggono esalta la vibrante carnalità dell’immagine. Naturalmente non sono esempi scelti a caso ma aiutano a riattraversare i momenti salienti, le figure più tipiche, gli accorgimenti più sottili della grammatica e della sintassi cinematografiche, dalla falsa soggettiva alle acrobazie dello zoom, dallo spaesamento del doppio alle avvolgenti geometrie del primo piano.

Se moltiplicare le analisi è la strada vincente anche per autori così spericolati che non si fermano di fronte alle potenzialità delle action cam, né della motion capture, resta la curiosità di sapere cosa pensano di Inside Out, di cui non hanno fatto in tempo a scrivere. Favorevoli o contrari, c’è da credere che l’antropomorfizzazione delle emozioni primarie – Gioia, Rabbia, Disgusto, Paura, Tristezza – dell’undicenne sradicata dal Minnesota per seguire il padre a San Francisco, li abbia intrigati parecchio.