Il cinema italiano, fin dalla commedia degli anni 30, ha costruito una teatralizzazione dello spazio filmico disseminandolo di doppi, scambi di persona, recite, sancendo il rovescio del tragico, portando alla deriva una impossibile identità italiana attraverso lo svuotamento, la dissimulazione, la spettralità di maschere che hanno tralignato in un grottesco sempre più nero (per cui i mostri della nostra commedia all’italiana hanno costellato la mascherata del potere, dal Sordi più inquietante e sinistro fino al ghigno posticcio dei personaggi di Petri). Contemporaneamente il gioco del reale prendeva campo fino ad investire il quotidiano di allucinatorio, di metafisico, di una vanitas barocca, oppure di una coscienza infelice del tasso di illusione del reale e dell’identità, che assumeva un intrinseco valore politico, come una anatomia della perdita di sostanzialità delle immagini, e del loro trascorrere storico, della loro credenza (i grandi esorcismi felliniani, le ambiguità intrinseche all’abitare la visività del mondo in Antonioni, gli ‘specchi’ narcisistici di Visconti, persino la lucida presa rosselliniana sulla coalescenza di verità e finzione, come si vede in un capolavoro come La prise de povoir de Louis XIV).

Oggi questo tragitto sembra arrivare ad esiti emblematici. Nel cinema di Ciprì e Maresco e poi, (in modo splendidamente doloroso come in una sorta di autodafé del senso stesso delle immagini) in quello del solo Maresco, il cinema italiano è stato capace di guardare nel ‘buco nero’ del reale, nell’orrore vuoto e beante che si nasconde dietro una maschera che ormai aderisce come una pellicola ai nostri corpi e ai nostri sguardi e che pure lascia trasparire nonostante tutto, nel silenzio esilarante e agghiacciante, la nuda vita. Forse soltanto Bellocchio (fin dal preveggente La Cina è vicina, 1967, arrivando a L’ora di religione, Buongiorno notte, Il regista di matrimoni, Vincere, La Bella Addormentata) resta capace di anatomizzare con una obliquità che travalica tragico e grottesco, gli apparati mascherati del potere contrapposti alla potenza della vita, usando lacerti di memoria filmica, schegge reali e messinscena, e soltanto Maresco con Belluscone, una storia siciliana (2014) si fa potentemente rivelatore dell’agghiacciante nullità della maschera contemporanea, anche lui con geniali prelievi dal patetico carnevale televisivo.

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E, su un versante ‘romanzesco’ che si interroga pure su un bilico tra illusione e credenza, dentro il senso stesso che il cinema come ‘macchina della verità’ può ancora avere rispetto ai dispositivi della storia, dei poteri, della responsabilità nel tradurre la vita in immagine (e in ciò si legge la persistenza della lezione di Pasolini di un cinema scritto ‘su carta che brucia’ e di una realtà che si fa linguaggio e scrittura con i pezzi stessi del reale, e in cui il nesso messinscena/vita è cruciale) certo sono Martone (il cui viaggio nella genealogia risorgimentale e leopardiana del ‘carattere degli italiani’ e delle illusioni perdute, come dei corpi resistenti, di poesia e politica, risuona come un ulteriore viaggio in Italia) e Moretti, in modi forse opposti ma in un certo senso complementari, a filmare ‘decostruendo’ lo stesso gesto della messinscena, adottando, rossellinianamente, una inerenza etica al fare immagini. Nel nuovo Moretti di Mia madre forse questa necessità si radicalizza in un ‘mutismo’, in un’ombra incolore, in uno svuotamento del ‘feticismo’ e dell’inquietudine delle proprie stesse maschere del disagio.

Il suo stesso, di Moretti, esserci ‘laterale’ svuotato da ogni ‘prestazione’ e reso trasparente eppure doloroso, il parossismo dell’essere ‘attore’ di una scena che si perde continuamente nell’autoderisione nel personaggio di Turturro, il ‘transfert’ femminile nella Buy del proprio onirico autotormentarsi nel predisporre un ‘set incerto’, un campo di gioco che viene risucchiato nel suo stesso gorgo, come era già in Sogni d’oro e Palombella Rossa e poi in Il caimano e in Habemus Papam, sul versante foucaultiano del trono vuoto, e dell’apparato panottico, il tutto di fronte a una R-esistenza-‘una vita’, direbbe Deleuze, a una pervicace volontà di vita, nuda e semplice, di una madre che continua ad esserci, pur scomparendo, come le immagini, come gli sguardi che su esse e con esse non possono più ‘sostenersi’. D’altra parte, laddove ancora, scavando nel vuoto, il cinema italiano vuole ostinarsi, con una certa disperazione e sgomento come anche con un piacere forse perverso e inquietante della mascherata (enucleandone l’inanità), a far emergere immagini, a comporle, sia pure in turbini visionari, ci si ritrova di fronte a un ‘gioco a rovescio’, a fare i conti con il dato carnevalesco, e apocalittico, della ‘mascherata italiana’. È ciò che accade con Garrone e con Sorrentino, e proprio nel momento stesso in cui il loro sguardo ‘prende le distanze’ in un misto di pietà e cinismo, di ‘volgarità e dolore’. È il carnevale paranoico in cui precipita il protagonista di un film come Reality, pinocchio contemporaneo che allucina il proprio Paese dei Balocchi nello studio televisivo, astrazione del «teatrino» comunitario che è il Rione napoletano in cui abita e che viene appunto figurato come una sorta di non-luogo, dove la «piazza» alla De Sica di L’oro di Napoli, è assimilata ad un affastellato ipermercato disseminato di copie e contraffazioni.

Così è un ‘grande disinganno’ che appare sul volto (che dissimula la maschera ed è circondato da maschere che non sanno di simulare) di un attore come Servillo (esempio massimo di una ‘coscienza’ della ‘confluenza’ tra tradizione e innovazione, come fu già per Eduardo) in La grande bellezza dove l’esornativo, il tratto manieristico, l’enfasi barocca, l’affastellamento di sequenze, lo sganciamento dall’intreccio a favore del frammento icastico (che può avere i modi dello sketch, del numero circense, del siparietto del varietà) viene messo in circuito in modo iterativo e svuotato, in cui il gesto rituale coincide con i tic e i cliché delle stesse maschere sinistre e nichiliste messe in scena al punto da assimilarle ai tic e ai clichè della stessa ripresa, dello stesso stile e ne restituisce la valenza biopolitica-teologica nell’assimilazione stretta tra persona e personaggio, nella sua riduzione a maschera dionisiacamente votata al nulla, e però in ciò ne svela oltre che l’orrore il dolore, il nesso volgarità-dolore.

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La festa iniziale di La grande bellezza e l’iterazione dei gesti automatici delle maschere burattinesche in ogni loro grottesca metamorfosi (come già per le camminate apotropaiche di Andreotti e gli arrivi e l’incedere posturale dei politici della corrente andreottiana, o il misurare nel buio il corridoio vuoto da parte dell’ombra larvale del Divo) si dissolvono le passeggiate nella Roma mascherata che rovescia la dolce vita in una amara agonia, i furiosi gesti pulsionali della bodyartista o della bambina, le ombre disegnate sulle superfici vetrose o velate, a partire da quelle femminili, come la striptiseuse o le veline, i ritorni ossessivi alle cadenze sbracciate e alle pose di Gep Gambardella, la sua assimilazione all’abito, al sartoriale che assume il valore di sembiante sinistramente complice o criminale. In tal senso il grande apotropaico carnevale esorcistico si rende sfinito e dissipatorio, fino all’inerzia «finale» di La Grande Bellezza e di Reality, dove le maschere protagoniste si annullano in un’abbandono all’ibrido, grande brivido del vuoto, e alla sua polifonia, cui si affida in toto il dispositivo del cinema, il suo ghirigoro grottesco, ormai solo macabra decorazione che co-incide con il mondo, dove illusione e reality fanno tutt’uno. Nei nuovi film di Sorrentino e Garrone presentati a Cannes, si può immaginare una ulteriore spinta fagocitante lungo una genealogia della maschera, e del disinganno barocco, della metamorfosi grottesca e allucinatoria entro cui il reale viene ‘survoltato’.

Certo il Cunto de li Cunti è il deposito del parossismo fabulatorio, del dissolvimento carnevalesco dei corpi, e in loro di una coalescenza di bellezza e orrore e (come ha dichiarato lo stesso Garrone) può essere una occasione per riprendere l’accensione ‘medusèa’ di un cinema fantastico che in Italia ha avuto un maestro come Bava. E certo è alle radici del ‘commedico’ che si verifica l’incontro tra il ‘senex’ e il ‘puer’, tra il tramonto di vite che si disfano e l’alba di vite che vorrebbero nascere e instaurare una primavera rifondante, attraverso gli inganni di ‘personaggi diagonali’ (come Badiou definisce i servi della forma-commedia) ed è in un (felliniano e manniano) ‘sanatorio termale’ che con la giovinezza vengono a impattare i corpi imbolsiti nella loro miseria e splendore di Caine e Keitel nel film di Sorrentino. Se il cinema italiano si intesse ancora una volta nelle maglie di un carnevale, di una mascherata, è attraverso questo ‘mondo alla rovescia’ che echeggia il ‘riso degli dèi’, che è anche un monito, e un appello, apocalittico (come nel Giudizio Universale di De Sica) e che, come un sipario smosso, gonfia i cieli pieni di barocche nuvole di tempesta, sotto cui viviamo.