L’ultima sera del festival, sala della Villa Méditerranée stracolma, prima dei premi tutti in piedi in un minuto di silenzio ricordando i morti di Nizza. Il Fid Marseille 2016 si è chiuso così, intrecciando come nella realtà la commozione e la gioia dei vincitori, un «bacio rubato» e la notte fino all’alba davanti al mare. Al di là del palmarés – che peccato ignorare il bel lavoro di Roe Rosen, The Dust Channel, esempio di una perfetta sintesi di film saggio, surrealismo, esplorazione della reciprocità nella violenza tra sfera intima e mondo esterno in un paese come Israele. O Sarah Winchester di Bertrand Bonello, fantasia gotica che nello spazio dell’Opera di Parigi riesce a racchiudere i territori del mito e della Storia americani, premiato comunque dalla critica – il Fid ha confermato anche in questa edizione la sua cifra indipendente. Che nell’orientamento del programma dichiara un pensiero nettamente riconoscibile, capace negli anni di assumersi i propri rischi anche a costo di forzature, di scelte talvolta spiazzanti e non sempre positivamente. Ma è, appunto, questa libertà che rende il festival diretto da Jean-Pierre Rehm a suo modo unico. E se rispetto alla sua dicitura di «festival del documentario» la selezione non si preoccupa dei generi, il sentimento del presente – e la sua relazione con le immagini, i vissuti, i desideri – appare centrale nelle questioni poste dai molti film visti in questi giorni.

 
Dunque: cosa significa oggi fare un film politico, che parli del mondo, della precarietà, dell’amore, della giovinezza? Tra Godard – citato e omaggiato esplicitamente e sempre con l’indispensabile autoironia – e Wakamatsu, UFE (Unfilmévenèment) di César Vayssié) che è però anche il risultato di un lavoro collettivo sviluppato negli anni dal regista insieme ai giovani attori protagonisti. Un gruppo di artisti cerca i mezzi di una possibile rivoluzione opponendosi alla postmodernità istituzionalizzata. Il corpo, il sesso possono essere armi da cui ripartire? Non è più tempo di Living Theatre, inventiamo qualcos’altro grida all’annoiato regista teatrale la ragazza in scena. Ma come dice l’eroina di Makavejev (I misteri dell’orrganismo) non c’è rivoluzione senza orgasmo.
I ragazzi decidono di fondare un gruppo clandestino, rapiscono un presentatore televisivo e si rifugiano sulle Alpi tentando di sperimentare una diversa forma di vita.

 

 

Alla narrazione cinematografica si alterna il movimento di un laboratorio teatrale, le citazioni si sovrappongono e la ricerca di come rappresentare il mondo produce una critica pungente alla società francese attuale. È un film intelligente e soprattutto pieno di energia UFE, pure nei suoi eccessi, nelle ripetizioni Vayssié riesce a giocare coi suoi riferimenti lasciando fluire senza sentimentalismi la forza spavalda e tenera della giovinezza.

 

21VISSINapertura

Sul proprio corpo, in una sorta di autofinzione progressiva ha costruito il suo universo cinematografico Boris Lehman, belga, tra i protagonisti della sperimentazione mondiale che in Funérailles (De l’art de mourir) mette in scena la sua morte come una sorta di happening tra rito ebraico e festa amicale, insieme al cane Cannelle, ai molti amici che sono parte dei suoi film, alle centinaia di sue bobine cinematografiche e agli infinito oggetti raccolti negli anni. Un funerale fisico che traccia una cesura importante nel suo cinema: all’improvviso di lui rimangono solo dei segni, la sua figura che ha attraversato ogni inquadratura negli anni – al punto che o lo si ama o lo si detesta – diviene memoria. Orazione funebre di un «cineasta senza fissa dimora» e insieme celebrazione postuma come sempre accade di tanti artisti. E la scomparsa lascia una immagine finale nuova: Lehman ritorna ma stavolta il racconto della sua vita diviene «diretto», la famiglia ebrea, la fuga dalla Polonia, il nazismo, la guerra, e quel cane pastore tedesco che lo ha morso da bambino. Autofinzione e spudoratezza della messinscena: ciò che commuove è la sua ostinazione «politica» in un fare cinema che non cede ai compromessi.

 
Sul corpo, su una fisicità partecipe nella distanza amorosa necessaria, è scritto anche Sol Negro il bel film di una giovane regista colombiana, Laura Huerta Millàn, diverse generazioni di donne e una dolorosa conversazione familiare nel passato e nel presente che le costringe al confronto: la cineasta che filma, la madre e la sorella che una crisi depressiva ha tagliato fuori dal mondo. È lei il centro della storia, Antonia, cantante lirica bella e malinconica, a cui il malessere ha risucchiato la vita. Il canto e le lacrime di un racconto di infanzia. Il dolore ostinato e il rifiuto di chi le è stato accanto, come la sorella maggiore. Le strategie di sopravvivenza.

 

 

La regista si avvicina con pudore, scopre piano piano i ricordi dei legami famigliari, il suo filmare è delicato come un sussurro, eppure forte, deciso, sa affrontare il dolore, tenere lo sguardo dei volti, essergli accanto, entrare in una storia privata che nelle sue immagini diviene universale.

 
La prima inquadratura si mostra una donna che si prepara il caffé. La luce filtra obliqua da una finestra, a fatica. La donna in silenzio lo beve e poi scompare, l’immagine rimane sul luogo, si fissa portandoci nel tempo della sua vita, nello spazio in cui si srotolano le sue giornate insieme alle vecchie pellicole del cinema jugoslavo che lei si ostina a proiettare a dispetto di tutto. Ogni tanto passa un amico, la figlia, la nipotina, e un giovane uomo che lavora un po’ insieme a lei. Sena prepara da magiare i peperoni, qualche chiacchiera tranquilla. I film vanno, i volti delle attrici famose a Sarajevo negli anni Settanta, Makavejev, la Jugoslavia di altri tempi, la speranza del dopo guerra, gli eroi e le eroine popolari, la ricostruzione fiduciosa, lo splendore del bianco e nero e la spregiudicatezza del colore. How I Fell in Love with Eva Ras di André Gil Mata costruisce il suo spazio narrativo nella progressione del tempo, della vita e cinematografico, della messinscena e della sua verità. Un quotidiano in cui si rivela una dimensione quasi straordinaria che comincia dalla scelta, ragionata con grande cura, del suo dispositivo: unità di luogo, la cabina di proiezione, il cui esterno è rappresentato dai frammenti dell’immaginario collettivo proiettati sullo schermo.

 

 

Un immaginario forse rimosso, dimenticato – sono trentaquattro gli spettatori a fine giornata – ma che nelle sue tracce sa restituire la Storia del paese a cui appartiene. È un questa scelta di mostrare il mondo attraverso delle particelle – di film, di vita – la cifra forte e riuscita del film. La realtà scorre piano, con il suo ritmo e i suoi accidenti, ci troviamo in una dimensione sospesa e insieme netta e presente. Vita e cinema, combinazione complessa che le immagini di Gil Mata colgono in modo semplice, accarezzano nel suo respiro, mai costrette dal proprio dispositivo che invece ne asseconda l’immediatezza costruendo con grazia un universo.