Per mettere un punto fermo e frenare la dissennata corsa di Renzi verso improbabili e sgangherate elezioni subito l’inquilino del Quirinale sceglie una via originale: una «fonte autorevole» riferisce nel dettaglio il pensiero di Sergio Mattarella, e non arrivano comunicati a smentire o correggere. «Indire elezioni prima che le leggi elettorali di Camera e Senato vengano rese tra loro omogenee» per il capo dello Stato «è inconcepibile». Renzi capisce l’antifona e i suoi fanno circolare l’ultima versione della strategia del Nazareno. Le dimissioni arriveranno oggi stesso, subito dopo l’approvazione lampo della legge di bilanzio. Ma Renzi proporrà poi un governo istituzionale incaricato di reggere il cerino mentre il Parlamento si occupa di legge elettorale, «purché ve ne siano le condizioni».

Sembra un’apertura alla presidenza Grasso e a un governo che non procederebbe certo con il passo di carica auspicato dal quasi ex premier. Non lo è. Quelle «condizioni», cioè la partecipazione di altre forze politiche alla maggioranza, in soldoni l’allargamento della stessa a Forza Italia, non ci saranno. Berlusconi non ci pensa nemmeno, e il Pd, a sua volta non vuole farsi carico da solo delle scelte di un governo sul quale eserciterebbe pochissimo controllo. Terminato il giro di giostra si tornerà al punto di partenza.

Non del tutto però. Il miraggio di una forzatura inaudita per votare immediatamente è stato se non fermato almeno frenato ieri. Ancora prima del semaforo rosso del Colle i deputati e soprattutto i senatori della minoranza, che sente vicinissima un’epurazione di massa stile Mosca anni ’30, hanno segnalato che probabilmente non obbedirebbero agli ordini, e non si uniformerebbero neppure le truppe di Franceschini e Orlando, che della maggioranza renziana sono una componente essenziale.

Quando gli azzurri avranno respinto al mittente l’invito a sostenere Grasso a braccetto con il Pd dovrebbe dunque tornare in pole position l’ipotesi del «governo amico», una specie di governo Renzi senza Renzi, presieduto da uno dei principali ministri uscenti: Padoan che piacerebbe molto a Bruxelles e Berlino e molto meno al Nazareno, oppure Gentiloni, che darebbe maggiori garanzie al segretario del Pd. La postazione chiave del sottosegretariato alla presidenza del Consiglio resterebbe a Lotti, che è come dire a Renzi. Sulla carta questo governo non dovrebbe arrivare oltre la primavera, ma una volta entrato in carica un esecutivo è universalmente noto che nessuno può scommettere su quando toglierà il disturbo. Per questo, del resto, Renzi ha tentato fino a ieri pomeriggio di forzare la mano per arrivare alle urne senza bisogno del cambio della guardia a palazzo Chigi, e non è detto che si sia rassegnato.

La realtà è che Renzi una decisione non la ha presa e il suo stato maggiore è diviso. Ancora ieri sera alcuni dei ministri e dei colonnelli più vicini al dimissionario profetizzavano uno scenario opposto a quello del «governo amico»: nessuna alternativa al governo istituzionale sostenuto anche da Forza Italia. Caduta quella chance, meglio se direttamente in aula con una plateale fiducia negata, non resterebbe che il voto anticipato in marzo. E in quel caso è probabile che proprio Renzi cercherebbe di restare in carica per l’«ordinaria amministrazione» e soprattutto la gestione della campagna elettorale. Questo, di certo, è il sospetto che circola nelle sale del Quirinale. Solo che un irrigidimento simile comporterebbe uno scontro frontale tra il premier uscente e il Colle, ma anche tra il segretario dem e i suoi gruppi parlamentari.

La sola certezza, al momento, è che l’indisponibilità di Renzi ad accettare la sconfitta referendaria è la sola vera ragione di instabilità. Oggi, per esempio, il Senato dovrebbe licenziare la legge di bilancio, per definizione la più importante e complessa di tutte, senza aver potuto modificare neppure una virgola.

Arrivata ieri sarà votata con la fiducia chiesta da un governo dimissionario: una di quelle follie che attestano quanto la fantasia dei politici italiani sia inesauribile.

Non c’è alcuna ragione perché al Senato, la cui esistenza è stata appena confermata dal voto popolare, sia stato sottratto il diritto a intervenire sulla manovra, tranne l’imposizione bizzosa e vendicativa di Renzi. Il punto delicato è che sui numeri non ci sono certezze. La minoranza Pd voterà disciplinatamente, ma tra i centristi della maggioranza è in corso una rivolta e Formigoni annuncia che lui e «altri» non precisati senatori» non daranno la fiducia. Per il governo che non c’è più non sarebbe un problema. La legge di bilancio invece affonderebbe e il caos arriverebbe a livelli mai raggiunti prima.