Francesco Hayez era talmente ossessionato dal «vero vivo» che per dipingere il Laocoonte non esitò a comprare una serie di serpenti. Li studiò e li propose nel suo quadro, rispettando la mutevolezza della loro pelle mentre avvolgevano tra le spire il disperato sacerdote di Apollo.
L’effetto fu strabiliante (da Roma inviò l’opera per partecipare al Grande Concorso di Pittura di Brera del 1812 e ne uscì vincitore ex aequo con il protegé di Andrea Appiani), ma subito dopo sorse un problema spinoso: cosa farne dei rettili? Secondo quanto raccontato da lui stesso, se ne sbarazzò buttandoli dalla finestra, colpendo in pieno una processione.

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Il Bacio nella sua terza versione, 1867

Uomo dal carattere aperto, non certo saturnino, che superò il gap iniziale di una famiglia di modeste condizioni economiche con l’attitudine alla socievolezza e un talento che non passò mai inosservato, conquistando i favori dell’intellighenzia più «europea», Hayez può considerarsi un soggetto catalizzatore in grado di convogliare su di sé tutte le aspirazioni di un’Italia che cercava un’aria ringiovanente, libera dai cliché dell’Accademia, imbevuta di umori romantici e di furori risorgimentali. Fu Mazzini, d’altronde, a eleggerlo a eroe di quel particolare momento epocale, scrivendo dal suo esilio londinese che solo lui avrebbe potuto risollevare l’Italia da «quella terra di morti che era diventata». Una celebrazione tutta in chiave politica, che riportava in auge la pittura della grande tradizione, piegandola ai venti della storia rivoluzionaria.

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Venere che scherza con due colombe (ritratto della ballerina Carlotta Chabert), 1830

Un melting pot culturale
Vissuto tra Venezia, Roma e Milano, con puntate oltre confine in direzione di Vienna e Monaco, l’artista ha nel suo dna il gusto estremo per il colore di un Tiziano e un’armonia compositiva che guarda a Canova. Molte saranno, infatti, le figure che rimanderanno al maestro, dall’Atleta trionfante che ricorda non solo l’Apollo Belvedere ma anche il Perseo canoviano, fino alle tante Maddalene cui rese omaggio cromaticamente, rispondendo alla meravigliosa scultura del suo mentore. Il suo curriculum si è nutrito poi con lo studio delle «inquadrature» di Raffaello (a Roma), le luminescenze metalliche e cangianti di un Savoldo, le mille verità psicologiche di un Lotto. Francesco Hayez fu il pittore che reinventò un volto per la «nuova Italia», miscelando insieme la lunga storia linguistica dell’arte: lo fece partendo da lontano, dall’osservazione degli antichi per poi volgersi verso i tumulti del presente, inserendo nei suoi quadri conoscenti, aristocratici patrioti, committenti cospiratori contro lo straniero, amici «creativi». Spesso, ritrasse se stesso in una sorta di cameo: la prima volta, era solo un adolescente e lo vediamo accanto alle sue zie, in un austero interno di casa borghese. Più tardi, quel vezzo di apparire tra gli altri assumerà una valenza politica precisa: a tratti sbarazzino e spavaldo, poi meditabondo, sempre un po’ di sguincio rispetto la grande Storia, Hayez sarà un testimone partecipe del suo tempo. Un contemporaneo fra i contemporanei.

Ora una mostra di ampio respiro presso le Gallerie d’Italia a Milano celebra l’artista simbolo del Romanticismo con circa centoventi opere, orchestrate nelle sale dal curatore Fernando Mazzocca (coordinamento generale di Gianfranco Brunelli, visitabile fino al 21 febbraio 2016, catalogo Silvana editoriale), fine conoscitore dell’Ottocento italiano che già nel 1983 allestì una antologica di Hayez nella città meneghina. «La sua principale qualità – spiega Mazzocca – era la straordinaria capacità di modulazione del colore. La tradizione veneta, tizianesca, era molto sentita. In più, l’artista era attento alla materia che usava, alle tele, ai pigmenti stessi: non faceva ricorso ai colori industriali, ma li voleva naturali. Per questo, ancora oggi sono smaglianti, conservano quella lucentezza che sembra fiamminga. Hayez poi era uno specialista nel rendere le innumerevoli variazioni di un solo colore, il bianco di alcuni ritratti, il nero (sempre così difficile da tirare fuori per un pittore), il rosso e, quello forse a lui più congeniale, il blu».

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Pietro Rossi, prigioniero degli Scaligeri, 1818-20

Partì svantaggiato, quindi, ma si circondò di persone colte, attente ai suoi bisogni, che lo spronarono verso il successo. Come il conte Cicognara, massimo conoscitore della storia dell’arte, che non lo abbandonò mai e lo spedì a Roma da Canova. Ebbe accanto collezionisti illuminati, si fece una sua famiglilia ma soprattutto frequentò molte amanti – esiste anche un corpus di suoi disegni erotici -, dedito com’era ai piaceri della vita. Oltretutto, ebbe in sorte una esistenza lunghissima: ottantenne dettò le sue memorie a una nobildonna sua amica così da lasciare un ritratto controllato e ufficiale di sé e non solo dicerie poco eleganti. «Era una specie di Casanova – continua il curatore – Possiamo dire che, soprattutto negli anni milanesi, fu l’interprete di una certa libertà che si respirava nei circoli dell’aristocrazia liberale che era stata vicina a Napoleone. Anche Stendhal lo considerava uno dei maggiori pittori viventi. Quella temperie si perderà nel conformismo che seguì l’ascesa della ricca borghesia, molto moralista».

Modelle e amori
Accantonata la mitologia in favore della storia moderna, nascondendo spesso negli abiti dei suoi personaggi i colori della bandiera italiana, riprendendo prigionieri in catene allo Spielberg, Hayez non disdegnò però i soggetti sacri, si cimentò con la tecnica dell’affresco – di cui possiamo vedere per la prima volta in mostra un esempio nelle lunette che si trovavano a Palazzo Ducale a Venezia, restaurate per l’occasione dopo aver passato decenni nei depositi – dipinse su tavola per mostrare la sua perizia e, soprattutto, fu un ritrattista smaliziato. Si conosce forse poco questa meravigliosa «pinacoteca» più intima di Francesco Hayez.

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Ritratto di Alessandro Manzoni

Se si esclude il celebre ritratto di Alessandro Manzoni (commissionato dalla moglie, rimase nella casa dello scrittore, non fu mai reso pubblico e gli amici dovevano recarsi in pellegrinaggio per ammirarlo: non è un caso che Manzoni venisse ripreso con la tabacchiera in mano e non in mezzo ai libri) o quello dell’eroina risorgimentale Cristina Trivulzio di Belgiojoso, questo genere che lo vede eccellere è stato oscurato dalla potenza politica dei suoi «dipinti civili» di grande formato (dai Vespri Siciliani ai Profughi di Parga, dove il popolo divenne un protagonista assoluto) e dalle icone del Romanticismo, come il capitano di ventura Pietro Rossi, Il Bacio – esposto a Milano in tre versioni, compresa quella che fu spedita all’Esposizione universale di Parigi del 1867 – e Gli sponsali di Romeo e Giulietta. Eppure l’artista realizzò una serie di ritratti di sconcertante modernità della sua modella preferita (e amante) negli anni Venti, Carolina Zucchi. A letto, ammalata, attraversata da giochi di luce sul bianco della stoffa della sua camicia, la «Giulietta» dei quadri storici guarda fissa davanti a sé, imbarazzando l’osservatore con il realismo pungente della sua malinconia. Malinconia dark che poi ritroveremo nell’atteggiamento di un’altra ragazza meditabonda, a simboleggiare l’Italia ferita nelle sue illusioni libertarie (dopo le tragiche cronache del 1848, a Milano). Bellissimo anche il ritratto della cantante Matilde Juva Branca che il pittore stesso considerava fra i suoi più riusciti e che Théophile Gautier elogerà per «l’incarnato di grande freschezza e morbidezza».

Lo spartito patriottico
Nel 1870, quando lui aveva 79 anni e Gioacchino Rossini era già morto, il compositore conosciuto da giovane a Villa Borghese, a Roma, venne immortalato in un quadro tutto impostato sulle sfumature dei neri. Con un ciuffo ribelle sulla fronte, Rossini stringe fra le mani un’altisonante «musica dell’avvenire». Hayez non avendo più a disposizione il modello, ricorse alla fotografia (pratica verso la quale inizialmente si mostrò diffidente) e poi donò l’opera a Brera affinché i posteri lo ricordassero degnamente.

A 85 anni dipinse forse il suo quadro più scandaloso (molte volte aveva fatto storcere il naso all’Accademia per la veridicità dei baci fra Giulietta e Romeo o per i nudi sensuali, con le pose da Venere Callipigia di ballerine della scala): è quello dedicato a Angiolina Rossi Hayez, figlia adottiva dell’artista che, negli anni Cinquanta, era stata a servizio nella sua casa. Adottata alla morte della moglie Vincenza, ci appare discinta, con i capelli sciolti, mentre a malapena regge la veste che le cade dalla spalla, denudandola. Il colore ha un tremolìo, Hayez sfilaccia la forma fino ad allora così tornita. È iniziata una nuova epoca, ma lui dovrà lasciarla ad altri.