Va in scena uno spettacolo inedito: la spaccatura frontale e pubblica del partito erede del Pci. E’ una frattura che i toni cercano di nascondere, che tutti cercano di mascherare dietro generiche affermazioni di fede nel «partito di tutti». E’ una lacerazione a cui il Pd arriva sul fronte meno comprensibile per i suoi stessi elettori, neppure la legge elettorale ma il «combinato disposto». E tuttavia resta una spaccatura reale e dichiarata: l’avvio di un conto alla rovescia che, se non verrà fermato prima, arriverà allo zero il giorno del referendum. Per il Pd, chiunque vinca, sarà un’impresa restare unito dopo essersi presentato diviso a una prova che riguarda non solo la modifica della Costituzione ma, di fatto, la sorte di un governo guidato dal suo segretario.

La scelta di portare la divisione latente alle estreme conseguenze l’ha fatta Renzi, in conflitto aperto con l’uomo che guida a pari merito con lui il fronte del Sì, Giorgio Napolitano. Per settimane l’ex presidente, dopo aver garantito al premier un’esposizione poco consona al suo ruolo di ex capo dello Stato, ha tentato di spingere il protetto a una retromarcia il cui vero obiettivo era evitare che si arrivasse alla Direzione di ieri. La sola via per evitare la frattura era assumere come governo la proposta di legge elettorale di Speranza, o qualcosa di simile. Napolitano lo aveva detto in modo esplicito qualche settimana fa al Corriere e si può essere sicuri che lo ha ripetuto al premier con formula anche più chiara. Renzi ha finto di muovere qualche passetto ma nella sostanza è rimasto incrollabile. Ieri ha elencato almeno alcuni dei motivi che spiegano una decisione tanto azzardata. Facendo proprie le parole di Fassino, che si era lanciato in un’apologia dell’Italicum, il premier ha confermato di credere nella logica di quella legge. E’ pronto a ritoccarla, però dopo il referendum e previe estenuanti discussioni con tutte le forze politiche dalle quali emergerà quanto ampio sia il ventaglio di proposte in campo. Non è disposto a rinnegarne l’anima: il rifuto delle coalizioni.

In molti, anche dall’interno della sua maggioranza gli hanno ripetuto ieri che non si può governare con una percentuale di consensi ridotta all’osso. Riprendendo le parole di Napolitano, hanno segnalato che per quella via la ricerca della stabilità si rovescia nell’opposto. Parole al vento. La priorità di Renzi è evitare le coalizioni e l’obbligo di mediazioni che comportano: se il prezzo per raggiungere questo obiettivo è governare con il 25% dei consensi è prontissimo a pagarlo.

La stessa idea della politica gli rende impossibile accettare il «consiglio» dell’ex presidente all’interno del Pd. Mediare una volta con la minoranza significa accettare il rischio di doverlo poi fare sempre. Un’eventualità che per il segretario del Pd è inconcepibile. Ieri si sono confrontate due visioni opposte non della legge elettorale o delle politiche di governo ma del partito: il solo elemento non ricucibile.

C’è una motivazione in più, probabilmente, dietro la linea dura di Renzi: poter presentare il referendum come una sfida tra lui, campione di tutto ciò che è nuovo e dinamico, e i dinosauri come Bersani e D’Alema potrebbe rivelarsi un’arma tra le più efficaci sul piano della propaganda spiccia. E’ vero, il prezzo da pagare il giorno dopo il referendum sarà probabilmente salato. Ma per un leader che si sta giocando tutto, l’importante è arrivarci, a quel «giorno dopo».