In questi ultimi giorni la nostra parte (sinistra? «cosa rossa?») ha registrato due positivi segnali: la firma dei rappresentanti di tutta l’area impegnata nella costruzione del nuovo soggetto politico «di sinistra» sotto un documento comune intitolato Noi ci siamo, lanciamo la sfida e la nascita del gruppo parlamentare di Sinistra italiana. Certamente ambedue questi avvenimenti possono essere soggetti a critica per il ritardo – colpevole e dai rischi esiziali – con cui siamo arrivati a questo primo passo.

E per il fatto che nella loro manifestazione appaiono evidenti «eredità di sconfitte, arretramenti, traversie e divisioni che hanno creato sfiducia e lacerato relazioni» (Carra, il manifesto, 7 novembre).
Il documento Noi ci siamo…, ad esempio, risulta essere piuttosto generico e assai debolmente analitico; nello stesso tempo, però, contiene anche impegnative discriminanti che, se prese sul serio dai contraenti – e devono essere prese sul serio – saranno certamente portatrici di una stagione politica veramente nuova per la nostra parte. Sarebbero gravissime le responsabilità di chi facesse fallire il processo per il prevalere delle logiche che hanno portato a «sconfitte, arretramenti, traversie, divisioni».

Anche nei modi della formazione del gruppo parlamentare di «Sinistra italiana», del resto, sono presenti tracce di quelle antiche (e recenti) vicissitudini. In particolare la scarsa propensione ad andare alla radice dell’attuale fase politica di cui gli assestamenti in corso restano fenomeni di superficie. Da ciò la ripetizione di logore litanie sulla necessità di tenersi a distanza da tutte le sfumature del «rosso» in quanto inesorabilmente «vecchie» ed affette da congenito «settarismo minoraritario». Coerentemente il colore del simbolo scelto per il nuovo gruppo parlamentare è l’arancione.
Comprendo assai bene le ragioni di tale atteggiamento in coloro che solo di recente hanno abbandonato il Pd ed in coloro che a suo tempo avevano scommesso sul centrosinistra «buono» di Bersani. Ma il compito assai difficile che tali componenti del processo in corso si sono date necessita di un salto di qualità analitico, ed insieme di un senso forte delle responsabilità assunte, in grado di relegare nella sfera del contingente, e di un contingente ormai alle spalle, tutti i tatticismi. Quelli sì davvero vecchi, oltre che deleteri.

Condivido il fastidio per l’espressione «cosa rossa». Il termine «cosa» ci tormenta dai tempi delle continue metamorfosi del Pds, ma l’ idiosincrasia del «rosso» che colpisce anche rispettabilissime persone con storie tutte di «sinistra» è la dimostrazione di quanto bene abbia scavato la «vecchia talpa». Quella dei padroni però, non la nostra.
Mi succede assai spesso di utilizzare questa citazione da Mario Tronti: «Una sinistra che non ha il coraggio di dichiararsi erede della storia del movimento operaio non merita di esistere». Sia che le origini della bandiera rossa risalgano al 10 agosto 1789, quando i sanculotti la innalzarono contro le classi dominanti cambiandone segno e dunque simbologia, sia che risalga agli scontri di Merthyr Tydfil nel 1831, quando i minatori gallesi sventolarono le camice insanguinate dei loro compagni uccisi dalle guardie pagate dai padroni delle miniere, il «rosso» e le sue bandiere sono i simboli di cui questa storia è inestricabilmente tessuta. Sono i simboli di quella irriducibilità espressa con mirabile chiarezza allorché gli operai metallurgici inglesi, agli inizi degli anni quaranta dell’Ottocento, dichiarano la necessità di uno sciopero che appariva impossibile con queste parole: «Come uomini non possiamo adattarci alla situazione, è la situazione che deve adattarsi agli uomini». Storie lontane? Come – si dirà – già il Novecento è storia prima di Cristo, lo ha affermato Marchionne e Renzi ha convenuto, ed ora si vogliono addirittura riproporre lezioni ottocentesche? Cosa c’entra l’archeologia con la politica?
Il fatto è, però, che i due secoli e mezzo della nostra contemporaneità, cioè della storia del capitalismo moderno, sono caratterizzati da meccanismi di mutamento secondo ritmi esponenziali e insieme da una straordinaria compattezza. La stessa storia insomma, si è svolta, e si sta svolgendo secondo temporalità diverse. Velocissimi mutamenti alla superficie e compattezza negli strati profondi. È indispensabile, dunque, comprendere sia le ragioni sia le logiche dei meccanismi di mutamento.

Le «forme» assunte dalla necessità assoluta della continua accumulazione, sebbene non appartengano agli strati profondi, hanno caratteri di «novità» veri, per cui altrettanto nuove devono essere le «forme» oppositive. Chi, dalla nostra parte, oggi vuole costruire un soggetto politico non «novello», ma davvero nuovo, deve, però, muoversi all’interno di quel complesso di relazioni che continua a legare gli strati profondi a quelli di superficie. E gli strumenti necessari, anche se non sufficienti, sia teorici che politici, sono stati forgiati nell’ambito della lunga storia dei «rossi».
Il perdurante esorcismo nei confronti dei «rossi» produce curiosi paradossi. Se noi leggiamo in parallelo il documento costitutivo del percorso di quella che la pubblicistica chiama comunemente «cosa rossa» ed una serie di argomentazioni (Tesi) che Carlo Galli, uscendo dal Pd, pone a base della costruzione di una sinistra democratica sociale repubblicana («idee controluce», 26 ottobre), è del tutto evidente come sia questo secondo testo ad avere una più «rossa» caratterizzazione. Nel breve articolo il termine «capitalismo» è usato per ben sei volte. Nessuna nel primo documento, dove il riferimento principale della contraddizione strategica riguarda un generico «neoliberismo». Galli invece delinea un’analisi strutturale degli elementi contraddittori dell’attuale «forma capitalismo» ed usa esattamente questa espressione. Contemporaneamente Carlo Galli non intende partecipare alla costruzione di una «cosa rossa». Carlo Galli insomma è analiticamente «rosso» e politicamente «arancione». Vorremmo ci aiutasse a capire.