«C17 – La conferenza di Roma sul comunismo e Sensibile comune – Le opere vive» segnano l’ingresso nel centenario della rivoluzione sovietica. Siamo nella seconda decade del gennaio 2017, dal 14 al 22 gennaio. Un seminario internazionale e una mostra, non per commemorare il passato ma per riprendere a immaginare il nostro futuro: comune. Anche senza ismo. Con un passo indietro. Si riparte da Giuseppe Pellizza da Volpedo. Non dal Quarto Stato, l’immagine che ha dato forma all’emancipazione del lavoro lungo il ’900, ma da un suo Prato fiorito custodito dalla collezione della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, paesaggio di luce e di grazia che proietta un possibile di vita nuova, nel qui e ora del suo tempo. Come se tra le condizioni per pensare al comune vi fosse quella di inventare una forma, intrecciare un racconto, trovare le parole, sentire una durata, immaginare la luce e i colori, fare esperienza di una gioia altra dagli individui singoli e paurosi che siamo nella vita quando essa ha la forma datale dal capitale. Come se per dare senso a questa parola, comune, che è l’ultima o forse la prima delle invenzioni per poter dire i molti, le genti, le plebi, la fiumana, il proletariato, il precariato, l’intelletto generale, occorresse anzitutto darle dei sensi e costruire le facoltà, anch’esse nuove, per percepirla.
Certo c’è da fare la critica delle immagini del potere e dello sfruttamento, delle subordinazioni e delle mercificazioni, delle società impaurite pronte a rispondere all’appello del farsi popolo e nazione, ma c’è anzitutto da ricominciare un racconto, una finzione narrativa che scavi lo scarto tra ciò che si è e ciò che si può. Assumendo in partenza che comune non è la natura devastata dal capitale cui tornare per ritrovarla intatta, ma un artificio all’altezza delle nostre capacità di creazione. Comune è il preciso oggetto di un gesto creativo che emancipa ciascuno dalle rispettive incapacità, dalle divisioni sociali e del lavoro, dai saperi degli esperti e il governo che ne deriva, e che rovescia in assemblaggi di affetti e nuove forme di vita le passioni proprietarie dell’individuo neoliberale.
Così è l’incipit di un racconto che non smette di ricominciare, teso a costruire il comune sensibile che vorremmo: per presa diretta, con un’immagine, un’opera, un’improvvisazione musicale, una performance, un software, un gesto, un vino naturale, un giardino. Pratiche, esperienze, oggetti che sono sì una mostra ospitata da un museo, ma anche un primo balbettio di parole, per dire di un mondo che non c’è, disposte dentro una nuova grammatica delle relazioni, le cui regole sono tutte da inventare.
LA FORMA
Per questo il rapporto tra estetica e politica torna a interrogare la forma e tralascia il contenuto. Per questo le arti vengono chiamate a partecipare di una costruzione che non è la didascalia immaginaria di una politica pensata da altri. E a chi entra – sia esso un pittore o un regista, un artigiano o un artista, un perfomer dell’arte o del lavoro cognitivo, un poeta o un manager di se stesso – viene chiesto di lasciare sulla soglia il bagaglio dei saperi, delle identità, delle facoltà stesse con le quali ordina la propria vita, gode delle proprie enclosure, guarda e norma il proprio mondo. Azzardare una nuova visibilità è il compito minimo dei comunisti oggi: «l’organizzamento della materia che si compie sotto l’influsso della luce» dice Pellizza da Volpedo nel 1896. È la lezione formale che ci sentiamo di preservare, non per dare un’immagine al nuovo popolo del Quinto stato, ma per riprendere l’incipit di un racconto che non smette di ricominciare, teso a costruire il comune che vorremmo.
Sensibile comune – Le opere vive è ciò che non ha nome. Non è una mostra e non è un festival. Non è una mostra per come questa forma culturale è stata pensata dagli anni Settanta in poi, ovvero non è il sogno privato di uno o più curatori indipendenti. Pensiamo, in questo senso alla rivoluzione di cui sono stati protagonisti Harald Szeemann e Achille Bonito Oliva che con alcune mostre seminali hanno inventato un nuovo modo di concepire l’esposizione attraverso la scrittura visiva mandando in soffitta il rapporto tradizionale tra l’artista e il critico da un lato, e lo spazio espositivo dall’altro, creando, allo stesso tempo, la figura del curatore indipendente e inventando la mostra come «evento» ispirato alla sperimentazione situazionista disinnescata però di ogni velleità rivoluzionaria. E non è un festival, in quanto logica dell’evento, ovvero modo nuovo di consumare la cultura facendo saltare per aria ogni confine tra alto e basso e puntando sulla contaminazione, modulo che ha avuto un suo laboratorio nella Roma di fine anni Settanta grazie a Renato Nicolini con l’Estate Romana, e a Simone Carella con il Beat 72, entrambi preceduti dai Festival di arte, teatro, musica e danza organizzati all’Attico di Fabio Sargentini. Sono forme culturali, quelle di cui abbiamo appena detto, che hanno letteralmente «fatto» il postmodernismo, quella «logica culturale» magistralmente analizzata da Fredric Jameson.
UN MOSTRO
Non è, e non vuole essere, nessuna di queste cose, perché questo «mostro», ecco come potremmo chiamarlo, è troppo ambizioso per ripetere ciò che si conosce già, ciò che rimane irrimediabilmente incardinato nelle forme di vita neoliberiste. Questo hopeful monster, questo mostro pieno di speranza, ha l’ambizione, smisurata lo ammettiamo, di vedere, al di là dell’infelicità diffusa, la luce di qualcosa che viene, quel «comune» che costituisce già la forma di produzione contemporanea e che però non ha ancora le sue istituzioni. Forse, si potrebbe allora dire, è un annuncio. L’annuncio di una forma di vita «comune» dove le «enclosures» moderne vengono sradicate una per una e l’artista, l’intellettuale e l’opera rimettono in discussione il loro statuto identitario a partire da quella straordinaria rivoluzione già descritta all’inizio dei Settanta da Hans-Jürgen Krahl in quelle Tesi sull’intellighenzia tecnico-scientifica che indicavano il divenire immateriale del lavoro e l’avanzare di una intellettualità di massa che mandava in soffitta l’ingiusta divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Dieci anni dopo sarebbe stato Lucio Castellano, in un bellissimo saggio uscito sul numero 7 di «Metropoli», a ricordare come il mutamento in corso mettesse in discussione il ruolo e lo statuto del sapere degli intellettuali, oltre a quello del potere (aggiungiamo noi, anche di quello culturale).
Un laboratorio dunque, dove provare a scorgere quei continenti nuovi e sconfinati che si estendono al di là del conosciuto e costituiscono quel «possibile» che Deleuze invocava per non soffocare. Infine, come doppio manifesto di Sensibile comune, oltre al Prato fiorito di Giuseppe Pellizza, ci piace pensare, ironicamente, a un olio su tela dipinto nel 1979 da Andrej Plotnov dove Gagarin, con il casco e la tuta da astronauta, sorride e saluta con la mano, pronto a esplorare spazi sconosciuti: Arrivederci, terrestri! è il titolo. Ecco, possiamo pensare a questa mostra come a un cosmodromo del comune, dal quale partire. Ora ci aspetta il mare aperto. Qui la luce, già evocata da Pellizza da Volpedo, è immensa.