Le stragi jihadiste di Parigi hanno rapidamente eclissato dai radar del dibattito pubblico il decimo anniversario della più grande rivolta che abbia mai avuto luogo nelle banlieue francesi, quella che nell’ottobre del 2005 scaturì dalla morte di due adolescenti, Bouna e Zyed, che sfuggivano ad un controllo di polizia a Clichy-sous-Bois. Il saldo di ventuno giorni di émeutes che attraverseranno le periferie dell’intero paese avrà i contorni di un dramma collettivo, con la proclamazione da parte del governo di centro-destra dello «stato di emergenza» che autorizzava i prefetti a imporre il coprifuoco in molte città, oltre duecento milioni di danni, ottomila veicoli dati alle fiamme, circa trecento edifici incendiati, tremila fermi, centinaia di feriti e sei morti.

Perciò, se è largamente comprensibile che l’irrompere dell’orrore rappresentato dai kamikaze allo Stade de France o dal fuoco dei kalashnikov al Bataclan o sulla folla assiepata nei ristoranti della zona di République nella quotidianità dei parigini, e per questa via, attraverso il simbolo universale incarnato dalla Ville Lumière, per molti versi in quella di milioni di persone in tutto il mondo, abbia fatto accantonare in fretta ogni tentativo di tornare con occhio critico sulle vicende di un decennio fa, non si può evitare di sottolineare come nei commenti apparsi in Francia abbia dominato lo sconforto e la constatazione che da allora quasi nulla sia cambiato nella società d’oltralpe. In ogni caso, in pochi hanno cercato di dare voce ai protagonisti di quel fenomeno, interrogandosi su ciò che il sistema politico o quello economico avevano o meno fatto per loro nel frattempo.

È questo un motivo in più per apprezzare il bel saggio che Federico Tomasello pubblica nella ricorrenza della rivolta delle periferie francesi, La violenza. Saggio sulle frontiere del politico (Manifestolibri, pp. 258, euro 20) che si segnala per la profondità e l’articolazione dell’approccio e per il tentativo di indagare in un certo senso «dall’interno» l’accaduto. Prendendo spunto da una fenomenologia di lungo periodo delle rivolte urbane, e pur focalizzando principalmente la propria attenzione sugli émeutes di banlieue del 2005 e gli altrettanto estesi riot scoppiati in Gran Bretagna nel 2011, il libro si muove entro lo scenario di una serie di avvenimenti prodottisi, in Europa come negli Stati Uniti, tra il black-out di New York del 1977 e, passando per la rivolta di Los Angeles del 1992 come per le reazioni del mondo ultras italiano alla morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, ucciso nel 2007 da un colpo esloso da un agente in autostrada, e l’uccisione del diciottenne afroamericano Michael Brown ad opera di un poliziotto bianco, avvenuta a Fergusson nel Missouri nell’estate dello scorso anno e che è stata seguita da una lunga serie di altre morti violente di ragazzi neri, tutte imputabili alle forze dell’ordine.

Dottore di ricerca in Storia del pensiero politico presso l’Università di Bologna, membro della redazione di Scienza&Politica e di quella del sito Euronomade, Tomasello opera però un’inversione, non solo di natura semantica, rispetto al modo in cui questi temi vengono d’abitudine affrontati dalle scienze sociali come da quelle politiche, spostando lo sguardo dalle molteplici «cause» che di norma vengono evocate per «spiegare» tali avvenimenti, a quello che si potrebbe definire come il contenuto intrinseco delle rivolte stesse: non ciò a cui i fuochi della razzia, della devastazione e della rabbia alludono in senso lato, ma esattamente ciò che comunicano a partire dal loro stesso dispiegarsi, dalla loro operatività, dalle forme sempre diverse, seppur annodate inestricabilmente a quanto è venuto prima e la memoria della strada ha registrato in modo silenzioso, che ne danno i propri molteplici protagonisti.

Uno degli obiettivi dell’opera sembra perciò essere quello di indagare per questa via il grande tabù, o se si preferisce il grande fraintendimento che circonda da sempre il modo in cui anche e soprattutto l’intellettualità critica ha osservato le rivolte delle banlieue come i riot delle inner-cities britanniche, vale a dire cercando per molti versi in un «altrove» significante – via via di natura sociale, politica o comunitaria – il senso di ciò cui ci si trovava di fronte. Perché se il manifestarsi delle violenze urbane ha costituito uno degli scenari privilegiati per il dispiegarsi di quella retorica della paura e della sicurezza che dall’«invenzione» della tolleranza zero nell’America degli anni Settanta arriva fino alla spettacolare ascesa del sarkozysmo e dei suoi epigoni nell’Europa dell’ultimo decennio, fondando l’identità della destra neoreazionaria, è a sinistra che le fiamme che si alzano dalle periferie hanno spesso provocato un senso di spaesamento e di incredulità, la sensazione di un’alterità piena alle forme date della politica, ivi compresa quella radicale o che si definisce come tale.

Muovendo da una messa a confronto delle letture offerte rispettivamente ai fatti francesi del 2005 e a quelli britannici di sei anni più tardi e da un ampio retertorio di interpretazioni del fenomeno, offerte dalla ricerca sociale come dal mondo dei media, l’autore si concentra invece sul modo in cui le rivolte urbane interrogano – o interpretano? – le forme del politico nel contesto della dimensione metropolitana e delle sue «frontiere» interne, della centralità assunta dal consumo e di una messa a valore economica di ogni aspetto dell’esistenza.

Per far questo, la problematica della violenza, centrale e determinante nel dispiegarsi dei riot, ma che ha rappresentato un nucleo fondamentale intorno a cui si è andato organizzando il pensiero politico moderno, è misurata in base alle interpretazioni del tema offerte da Marx, Sorel, Benjamin, Arendt, Sofsky, Foucault e Popitz. Con il risultato che l’apparente estemporaneità delle rivolte urbane trova un contesto e un percorso nel quale iscriversi, pur mantenendo intatta la sua irriducibilità al vocabolario della politica così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

Da questo punto di vista, sottolinea Tomasello, la riflessione sul fenomeno delle rivolte urbane offre principalmente «la possibilità di assumere l’indagine dei dispositivi discorsivi, culturali, sociali e perfino urbanistici che contribuiscono a fissare la distinzione fra ciò che è politico, nel politico, e ciò che non lo è come strategia di ricerca generale attraverso cui misurare taluni punti di crisi dei nostri utensili di lettura della contemporaneità, di categorie forgiate per designare un mondo che non c’è più in un tempo nuovo per nominar la cui esperienza sentiamo talvolta le parole mancare». E c’è da credere che si tratti di un percorso che può tornar utile anche per tentare di decifrare l’identità di quel terrorismo jihadista che cerca proseliti nelle medesime banlieue d’Europa.