Cosa è stato davvero il «decennio rosso»? Quali sono stati i fatti salienti e i protagonisti reali di quegli anni ’70 sui quali continuano a uscire libri a raffica, ma quasi sempre centrati su armi e armati, oppure, ma in misura già infinitamente minore, sulle peraltro gloriose organizzazioni extraparlamentari? Chi, da quel quadro del passato spesso bugiardo e adoperato ad arte per condizionare il presente, è stato espunto, rimosso e cancellato? Almeno quest’ultima risposta è semplice: a essere stati cancellati dalla memoria sono stati gli operai, veri «personaggi principali» del decennio più denso di conflitti nella storia italiana, le loro lotte durissime, la loro rabbia, il potere che erano riusciti a conquistare nelle fabbriche.
Un gruppo di protagonisti di quella storia prova ora a colmare un vuoto di memoria che minaccia di trasformarsi in definitivo stravolgimento della storia. Tra questi Maurizio «Gibo» Gibertini, ex militante dell’Autonomia milanese, e Roberto Rosso, prima dirigente di Lotta continua a Milano, poi tra i fondatori di Prima Linea.

Come è nato questo progetto?

Gibo: Eravamo sempre più disgustati per come il racconto di quella fase storica viene stravolto per essere utilizzato nel presente come strumento culturale di repressione dei conflitti. Poi ci siamo resi conto che però non si poteva parlare della seconda fase degli anni ’70, del ’77 insomma, senza arretrare nel tempo in modo da spiegare cosa davvero era successo e perché, soprattutto nelle fabbriche. La fase che va dal 1968 al 1973 è fondamentale perché è lì che esplode la lotta operaia e poi si allarga nei quartieri operai e nel sociale. È in quel momento che nelle fabbriche si affermano vere e proprie forme di «potere operaio».
Moltissimi pensano al ’68 come a un movimento di studenti provenienti per lo più dai ceti medi. Ma il ’68 fu anche operaio. A Valdagno, a Porto Marghera, alla Pirelli di Milano ci furono conflitti durissimi e se il ’68 italiano è durato oltre dieci anni è in virtù della massiccia presenza operaia. Se dovessi indicare l’anno in cui si afferma un vero potere operaio nelle fabbriche italiane, forse è il 1973, l’anno dei fazzoletti rossi e dell’occupazione di Mirafiori.

Con che metodo state procedendo?

Gibo: Avevamo a disposizione una serie di competenze, soprattutto negli audiovisivi e negli archivi, e abbiamo iniziato a raccogliere materiale, registrando i racconti e le testimonianze degli operai che di quella storia sono stati protagonisti. Abbiamo anche lavorato sul materiale già esistente, che non è moltissimo, ma c’è. Come metodo, abbiamo scelto di procedere non con una ricostruzione affidata a professionisti, ma attraverso il racconto diretto, dunque raccogliendo materiale che possa poi costituire un archivio da mettere a disposizione anche degli storici. Rosso: Andando avanti col lavoro, però, abbiamo constatato che nelle fabbriche parlavano moltissimo anche del presente, così abbiamo intrecciato due storie: quella degli anni ’70 e quella di un presente che è segnato da una grandissima difficoltà e da uno strenuo tentativo di resistenza. Questi materiali più attuali li stiamo già mettendo in rete, come anche alcune delle interviste sugli anni ’70 . Si possono trovare su youtube: «officinemultimediali», playlist Storie operaie.

A fronte della potenza mediatica e culturale di chi usa il passato per garantirsi il dominio sul presente, è ormai forse impossibile restituire a quella storia la sua verità. Forse sarebbe meglio, invece, metterla da parte e affrancare il presente da quell’eredità…

Gibo: Noi crediamo proprio che una vera ricostruzione di memoria sia necessaria appunto per chiudere definitivamente quella fase. Non solo per contrastare l’uso distorto che ne fa il potere a fini di repressione e controllo, ma anche per affrancare i giovani dal modello di allora, da questa specie di coazione a rifare il ’77. In fondo è una situazione simile a quella che abbiamo vissuto noi, allora, nei confronti della Resistenza interrotta. Credo che proprio per il peso di quella vicenda noi abbiamo accompagnato analisi molto nuove e puntuali con metodi di lotta che erano invece molto tradizionali e «antichi». Alla raffinatezza dell’analisi non ha corrisposto un adeguato livello nella pratica. È ora di consegnare la memoria alla storia, ed è precisamente ciò che con questo lavoro vogliamo contribuire a fare. Ma chiudere quella fase è impossibile senza prima restituire la realtà di quel che è davvero successo.

Dal punto di vista strettamente storico, vi sembra di stare scoprendo aspetti di cui non eravate consapevoli?

Rosso: Assolutamente sì. Per esempio, è da sempre noto il ruolo che ebbero in quei conflitti gli operai immigrati dal sud, molto meno quello, invece fondamentale, delle donne. Sono proprio le donne il principale veicolo, a metà anni ’70, dell’estensione e dell’osmosi tra il conflitto in fabbrica e quello sul territorio, perché sono loro a incarnare l’esigenza di spostare le lotte nell’intera struttura del sociale. Inoltre stiamo lavorando, sia con le interviste che con i materiali d’archivio già esistenti come il Fondo Mantovani della Fiom a Sesto San Giovanni, anche sul movimento operaio tradizionale, il sindacato insomma. Abbiamo fatto una lunga e secondo me preziosa intervista a Pizzinato. Bene, i risultati sono in un certo senso sorprendenti: io allora ero segretario della sezione di Lotta continua di Sesto e quelli erano l’oggetto della nostra contestazione. Ma a riguardare le cose oggi scopri che invece ingaggiavano conflitti durissimi e avevano portato le lotte operaie a un livello straordinario.
Inoltre, sempre a proposito di Sesto, tradizionalmente è sempre stata considerata la «città operaia» per eccellenza. Ma se poi vai a vedere, ti rendi conto che già allora i pendolari erano moltissimi e che l’ideale della «città operaia» nascondeva la realtà delle sue trasformazioni sociali. Quando poi la realtà non la si riesce a più nascondere e l’ideale della «città operaia» entra in crisi, l’impatto politico e sociale è devastante. Insomma, partendo dalla ricostruzione delle lotte operaie finisci per addentrarti anche in una storia del territorio, a partire dai fondamentali piani urbani dei primi anni ’60.

Dal punto di vista geografico, quale area volete prendere in considerazione?

Gibo: Ovviamente siamo partiti, per così dire, dai nostri «stereotipi»: Milano, Torino, la Fiat, Porto Marghera, i centri del conflitto operaio. Però intendiamo coprire tutto il territorio nazionale, dalla Val d’Aosta alla punta dello stivale! Per ora stiamo già lavorando anche su Cassino, e anche questa è un’esperienza molto interessante perché smentisce il luogo comune secondo cui tutte le lotte operaie di quel periodo rispondono a un modello comune con varianti interne. Invece scopri che ci sono grandissime differenze sia nella composizione sociale che nella risposta del territorio.

Di quale utilità può essere una ricostruzione delle lotte di allora per i conflitti attuali?

Rosso: Lo scopo del nostro lavoro, in fondo, è proprio creare un canale di comunicazione tra territori diversi e tra generazioni diverse. Certamente c’è una trasmissione di forme di lotta che può essere utile, dal blocco delle merci all’appoggio dei servizi d’ordine alle fabbriche che erano occupate dalle donne, ma io non credo che sia questo l’essenziale. Quel che veramente può pesare è edificare una relazione viva, empatica, umana, riconoscibile tra i protagonisti dei conflitti di oggi e quella fase che in realtà tiene già dentro tutte le esigenze e i bisogni anche del presente.
Credo che sia importante, per gli operai di oggi, sapere che è stato possibile adoperare nelle lotte determinati strumenti con le stesse leggi di oggi, all’interno dello stesso quadro, non in una situazione completamente diversa. Il tema della violenza è sempre ideologico, mai oggettivo, ed è importante sapere, ricordare che c’è stato un momento in cui, ripeto con le stesse leggi, era considerato legittimo quel che oggi viene bollato come inaccettabile. È altrettanto importante, ad esempio per gli operai immigrati, rendersi conto che il Paese in cui sono venuti a lavorare è stato fatto e costruito anche in questo modo, con questi conflitti e con queste modalità di lotta. E quando parlo di immigrati, non alludo solo ai migranti propriamente detti, perché anche i giovani nati qui, oggi, si trovano in una condizione di spaesamento, alle prese con un futuro inospitale, che è identica a quella dei migranti. Nessuno, oggi, si sente più a casa propria.

Prima Roberto alludeva all’importanza, sin qui non abbastanza riconosciuta, del ruolo delle donne. Ne avete già intervistate alcune?

Rosso: No, non è facile rintracciarle. Ma ci sono esperienze specifiche che intendiamo recuperare, come la Magneti Marelli di Milano, dove il grosso delle maestranze era femminile e questo influiva sulle modalità di lotta e sugli obiettivi.

Un progetto tanto vasto e ambizioso ha i suoi costi. Dove avete sinora trovato i fondi e come sperate di trovarne altri?

Gibo: Siamo partiti su una spinta puramente volontaristica, con mezzi personali. Per lo start up poteva bastare ma è ovvio che andando avanti si rendono necessari finanziamenti: bisogna viaggiare per tutta Italia, trovare il tempo e i mezzi per realizzare il progetto. Intendiamo cercare fondi come progetto europeo e come pro-founding e stiamo già stringendo una serie di rapporti e relazioni: con l’Archivio storico del movimento operaio (Amod) e con alcune associazioni particolarmente sensibili sul tema.