Nell’incipit del film Drowning by numbers, Peter Greenaway affida a una bambina la nominazione delle stelle. Mentre salta la corda, lei le conta una per una fino ad arrivare a cento. Un cielo notturno e gravido sovrasta quella assorta figuretta, soccorsa da una memoria formidabile e dall’idea che debba andare fino in fondo per sistemare addirittura il firmamento. O forse per decifrarne il peso. Storia umana della matematica (Einaudi, pp. 162, euro 18), l’ultimo libro di Chiara Valerio, ha al fondo lo stesso dolente stupore. A differenza di Greenaway, qui non si ha però paura di affogare nei numeri.

La matematica, «questa immaginazione che educa all’invisibile, dunque all’amore e ai morti, alle utopie e ai fantasmi», consente all’autrice di rispondere alla propria impazienza riguardo la realtà e la verità. Le teorie, e soprattutto le vicende, di sei grandi matematici servono così per declinare il corso della comprensione del mondo; l’intreccio, non solo in exitu, con la biografia di Chiara Valerio riferisce un oggetto letterario che non può essere rubricato in una semplice opera divulgativa di ammirazione verso i maestri. Storia umana della matematica spalanca piuttosto all’intrusione irriducibile che è la vita stessa. Dalla fine del Settecento e lungo due secoli, viene segnato il passaggio dall’assoluto di tempo e spazio, individuato da kantiani di ferro come Farkas e János Bolyai, padre e figlio, alla percezione di dimensioni più umane da parte di Bernard Rimenann che riequilibra l’ordito rilanciato poi da Pierre Simon-Laplace nel suo sistema dell’universo e del caso. Si arriva a Mauro Picone per cui il calcolo, compreso quello differenziale, può essere uno strumento utile alla risoluzione di problemi pratici, infine il fisico Lev Landau e Norbert Wiener che con la cibernetica e le sue ricerche sul linguaggio ha fornito nitido il nodo tra umano e macchina.

In questo passaggio, di epoca, di modello culturale e sociale, di contesto materiale e di letture, Chiara Valerio racconta la storia della perdita degli assoluti e della ragazzina che ci giocava intorno prima con fiducia imperitura e poi, cioè ora, con disincanto più appropriato. È la storia non di un liscio progresso scientifico bensì di un percorso a inciampi in cui l’errore e l’imperfezione mettono al sicuro dall’onnipotenza, corroborando o confutando lo stato delle cose.

E «se la matematica è la scienza degli occhi», l’atto dell’attraversare le cose è per Chiara Valerio molto simile a quello dello sguardo, stupefatto sottofondo in cui esistere significa fare i conti con il proprio apprendistato all’attenzione, consapevoli che la qualità del vedere e del guardare non è provvista della stessa stoffa. Nella prima sta la matematica come forma della chiarezza e distinzione, della battaglia delle certezze acquisite messe costantemente alla prova dal tribunale della ragione. La matematica in quella prima forma e qualità è simile all’entusiasmo della sedia vicina alla porta di casa da cui Chiara Valerio, piccola, si sollevava in piedi per le scoperte da comunicare al padre appena rientrato dal lavoro. Quella minuscola sedia che, mano a mano, assume una proporzione più scomoda quando il corpo comincia a crescere. Nella seconda qualità, dello sguardo, dimora invece qualcosa di più imprendibile perché si sottrae all’ansia spiegatizia e fa franare ciò che si credeva non negoziabile: la scoperta del proprio sé, un sentiero in cui la relazione invisibile è tra intelligenza e amore. Non solo per la devozione contagiosa che l’autrice dedica ai libri che hanno segnato la sua formazione, piuttosto per una lotta con la fame di conoscenza, languore strenuo e dotato di candore con cui cerca di fare ordine nel caos; è il rintocco della tigre desiderata nell’infanzia e poi trasformata in metafora. Perché la letteratura si occupa della misura, seppure nel perturbante dell’inaddomesticato.

Numeri e parole sono allora limitrofi più di quanto si immagini. È ciò che resta dell’a priori alla prova dello strappo della presa di coscienza. Quando si comprende che le forme non tradiscono mai, solo a patto di non essere incarnate. Quando cioè si abbandona l’illusione di controllare l’immutabile e si accetta la transitorietà. Il momento del lasciare andare ci tiene al sicuro, perché finalmente «gli altri ci salvano dall’impazzire (…), sono il faticoso modo per non perdere il senso delle proporzioni». E la bambina che contava con diligenza il firmamento sceglie l’invenzione amorosa del mondo e diventa una scrittrice.